Addio a Piero D'Inzeo, cavaliere perfetto
Ufficiale, gentiluomo, cavaliere ai limiti della perfezione. Piero D’Inzeo qualche mese dopo la festa alla Società Ippica Romana per i suoi 90 anni aveva dovuto rendere l’estremo saluto a Raimondo, tra l’altro con una lettera sobria ma venuta dal profondo del cuore, in cui aveva giocato ancora con il fatto di essere stato battuto per l’ennesima volta dal fratello di due anni più piccolo.
Se qualcuno avesse voluto fare un monumento all’archetipo dell’Ufficiale del ventesimo secolo, avrebbe dovuto inevitabilmente ispirarsi a Piero D’Inzeo. Impeccabile in divisa e nella vita di tutti i giorni. Una carriera, o meglio una vita con le stellette, che aveva lasciato con il grado di Generale dopo aver avuto responsabilità di comando a ogni livello. Tanto per dirne una, la sua presenza al centro militare dell’Esercito a Montelibretti ha avuto un qualcosa di nobile e di romantico, per esempio nelle feste di fine anno che resteranno nella memoria di chi ha avuto la fortuna di parteciparvi.
“Datemi una sedia e io la farò saltare”. Non se lo abbia mai detto o se questa frase faccia parte della mitologia spicciola che da sempre si sposa con i campioni veri. Di sicuro, Piero D’Inzeo è stato il più puro e il più perfezionista interprete del Verbo Caprilliano. Per lui, qualunque cavaliere in sella doveva essere la sublimazione della cosiddetta equitazione naturale di Federigo Caprilli e il suo assetto non ammetteva mai distrazioni, anche se ciò poteva costare la vittoria o un buon piazzamento. Dicono che avesse la “mano pesante” nel preparare i cavalli. Sarà pure vero ma che ci sapesse fare lo ha più che ampiamente dimostrato, leggi per esempio le sette vittorie con sei cavalli diversi nel Gran Premio Roma a Piazza di Siena.
Al di là della rivalità in campo, da qualcuno esasperata al di là dell’agonismo, è indubbio che i Dioscuri del salto ostacoli si completassero a vicenda: Piero l’esteta, Raimondo il talento. Entrambi dotati della stessa ironia, entrambi nati per andare a cavallo. E’ storia, hanno praticato tutte le discipline olimpiche e sono stati bravissimi anche nelle corse al galoppo. Tutto questo quando i cavalli bisognava trovarseli negli allevamenti e poi addestrarli con ore e ore di lavoro e con tanta umiltà. Piero mi raccontò, tra l’altro, che a The Rock era infinitamente grato: il saltatore grigio gli aveva dato la medaglia d’argento alle Olimpiadi Roma ma soprattutto la possibilità di comprarsi casa.
Piero aveva per la vela lo stesso amore che Raimondo ha avuto per la Juventus. La sua barca era ormeggiata in un porto sul Tirreno e lui la coccolava come un figlio. Una volta inventò un accorgimento tecnico che poi lo skipper Cino Ricci fece suo per Azzurra. Piero era felice come uno scienziato che riceva il Premio Nobel!
Un anno eravamo a Fontainebleau. La squadra italiana era davvero uno squadrone: in azzurro c'erano anche Graziano Mancinelli e Amos Cisi. A fine concorso decidemmo, Piero ed io, di fare un salto a Parigi. Non l’avessimo mai fatto, era il giorno di Pentecoste e la strada era un fiume in piena di macchine. Ore e ore in fila ma il tempo volò via senza che ce ne accorgessimo, cavalli e giornalismo i temi della nostra conversazione, con qualche pettegolezzo tanto per gradire.
Bandiere a mezz’asta e lacrime che appannano la tastiera, anche stavolta. Addio Piero, grande amico.