Omaggio a Renzoni, l'allenatore gentiluomo
AVEVA GLI OCCHI spenti e sofferenti per il male che si portava dentro Armando Renzoni quando lo vidi l’ultima volta a San Siro per il Premio Omenoni di Back Hunting. Gli domandai della sua salute, come si sentisse pur conoscendo la pena di quei giorni, e lui rispose che tutto andava bene subito volgendo però il discorso alle chances del suo pupillo nella corsa in dirittura che tante volte gli era stata favorevole. Ora tutto si è consumato in breve tempo, una fine repentina, che nessuno si aspettava anche perché esiste sempre in noi la speranza che il miracolo si compia.
Armando Renzoni faceva parte di una scanzonata brigata di ragazzi che si ritrovavano puntualmente a San Siro nei pomeriggi di galoppo. Lui, Gabriele e Paolino Miliano, le sorelle Pandolfi, la figlia di Saverio Pacifici, qualche erede della borghesia milanese il cui padre aveva scuderia, tutti pronti ad accogliere con urla di gioia le prodezze dei loro beniamini. Armando quelle di papà Roberto, fantino dalle mani d’oro, ma c’erano tra noi anche Edoardo Camici e Alessandro Parravani, ancora sulla braccia della mamma, felici quando Enrico o Silvio, finivano davanti a tutti accolti dagli applausi della folla.
La nostra fortuna, perché tra quei giovani c’ero anch’io, è stata di vivere un’ippica bella e indimenticabile, un’ippica fatta di grandi protagonisti, di scuderie leggendarie, di jockey e allenatori mai abbastanza celebrati, che se fossero nati in Francia o Inghilterra avrebbe ottenuto ben altra gloria e notorietà. Un galoppo da sogno, lo sport dei re, fatto di rare seduzioni, per lo spettacolo d’élite che sapeva offrire e la passione che sapeva infondere. Poi Armando si trasferì con la famiglia a Roma e qualcosa, a noi rimasti senza quell’amico a Milano, venne meno. Sentivamo un vuoto nel ritrovarci puntuali all’ippodromo, ma lo seguivamo attraverso le cronache dei giornali, o per telefono quando ce n’era tempo, prima gentleman con le sue vittorie, poi allenatore sulle orme del padre che aveva ormai smesso di montare e si era dedicato al training.
Il periodo d’oro, le stagioni più fulgide Armando le visse coi cavalli dell’Ajb, anche se gli inizi non furono facili perché Antonio Balzarini, titolare di un complesso destinato a vincere tutto in Europa (Arc de Trfiomphe compreso), non era un proprietario facile. Con le sue idee, i suoi principi, le sue utopie, il più delle volte oculati e rispettabili, ma talora anche maniacali, nel voler pretendere l’impossibile dai suoi portacolori sottovalutando lo spessore degli avversari.
Armando si faceva intanto sempre più attento e scrupoloso, affinava il mestiere, imparava a operare scelte responsabili negli obiettivi, distinguendosi nel mantenere con sorprendente bravura al top della condizione i cavalli Ajb, lungo l’arco dell’intera stagione. Così arrivarono le mete prestigiose con Arranvanna e Atoll nelle classiche italiane e un secondo posto nelle Oaks d’Irlanda che poteva essere un trionfo se solo la fortuna avesse dato una mano alla campionessa di Balzarini.
Armando non recriminava, non aveva mai da ridire su questo e quel risultato, accettava serenamente senza fare storie il verdetto della pista, perché aveva innati una signorilità e una riservatezza e un garbo che lo rendevano amabile e da tutti rispettato.
Ci furono anche Barn Five South e Dancing Table, ci furono Imco Lisi e Freccia Dorata, ma ci fu in particolare Late Parade, un lampo sui 1000 metri, che lui inquadrò nel modo di correre, moderò e rese pressoché invincibile in dirittura. Ora tutto si è computo, tutto si è interrotto con incredibile rapidità e nel momento dell’estremo saluto con una stretta al cuore, mentre altri ricordi e altre tristezze ci opprimono, possiamo soltanto dire: ciao Armando.























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