Mancano i soldi e i cavalli costano.
Semplice, mandiamoli al macello
NEL 2008 il libero mercato svalvola e quasi tutte le economie dei paesi occidentali vanno in tilt. Sono quattro anni, dunque, ed è appena cominciato il quinto, che balliamo la pizzica sui carboni ardenti di una crisi che nessuno sa dove va a parare. Tra un salto e l’altro, qualcosa, però, l’abbiamo capita di questa crisi. Non per soggettiva perspicacia, ma per oggettiva constatazione di fatti.
E’ finita l’epoca del liberismo per come l’ha pensato Von Hayek. E per come, brutalizzandolo, l’hanno rilanciato Milton Friedman e il codazzo dei suoi Chicago Boys.
E’ finita l’epoca marcata anni ’80 dell’altro secolo. L’epoca di Reagan e della Thatcher e dello smantellamento dei diritti sociali. L’epoca in cui il solo annuncio di licenziamenti in massa faceva schizzare in alto le quotazioni in Borsa di aziende, imprese e società. Dal lavoro bruciato si alzava l’evanescenza tossica di una ricchezza bugiarda. E l’epoca in cui al lavoro viene piegata la schiena. E, da allora, non l’ha più drizzata.
In piena guerra finanziaria, sotto i bombardamenti di subprime, spread, derivati, e quant’altro spara il santabarbara della pirateria finanziaria, ci si chiede se e quando ne usciremo. Manca l’interrogativo fondamentale: come.
Qualcuno ha detto che questa crisi è come un infarto. Non lo guarisci con le medicine, ma cambiando stile di vita. Cioè: dobbiamo cambiare modo di stare al mondo. A cominciare dal coraggio delle parole. E qualcuno lo ha avuto, denunciando per nome e cognome. Terrorismo finanziario, l’ha chiamato.
QUI DA NOI dovremmo saperne qualcosa di terrorismo. Lo abbiamo affrontato e vinto quando ci siamo decisi a credere che si poteva affrontare e vincere. Allora, sul diario dei compiti a casa, assieme a tasse e pensioni, dovremmo scrivere anche ‘stanare terrorista’. Ma forse meglio no. Meglio non correre il rischio di scoprire che il terrorista e chi finanzia ciò che non possiamo permetterci sono la stessa persona.
Davvero curiosa la democrazia: inzeppata com’è di regole, non ne trova una da opporre all’assolutismo del denaro. E ancora più curiosa quando pretende responsabilità sociale dall’impresa mentre, genuflessa, bacia le mani ai biscazzieri della finanza. Forse, però, di per sé, neanche c’entra, poveretta, la democrazia. Forse c’entra l’osmosi fra potere e coscienze: tanto più quiete queste, quanto più feudale quello.
C’è stato un tempo, però, in cui coscienza e potere si sono scambiati adrenalina. C’era qualcosa di importante da fare e l’uno non avrebbe potuto farlo senza l’altro: immaginare il futuro. L’hanno fatto a Bretton Woods, quasi 70 anni fa.
Lì bisogna tornare. Non, beninteso, a 70 anni fa. Ma allo spirito di Bretton Woods.
Una nuova Bretton Woods che disintossichi il pianeta dalla sbornia liberista degli ultimi decenni.
Che restituisca alla produzione della ricchezza il valore del lavoro.
Che assuma il lavoro produttivo come unico e insostituibile creatore di ricchezza.
Che ridefinisca progresso e civiltà sulla base di criteri che ripartiscano equamente la ricchezza tra chi la produce.
Che ridisegni ruoli e funzioni delle istituzioni finanziarie mondiali in chiave antispeculativa.
E che, soprattutto, dia ascolto ad un nuovo Keynes.
Utopia? Forse. Senza, però, è tutto più difficile. Anche immaginare. Di che vita vivere, per esempio. Mentre di che morte morire ce ne danno già conto migliaia di esseri viventi ai quali ci sentiamo particolarmente vicini per tradizione, cultura e passione. E qui veniamo al punto.
DUNQUE, una crisi, questa, che capovolge e svuota la sporta del pane. Sta succedendo in Grecia, è già successo in Irlanda. Dove, con la rapidità e la distruttività di uno tsunami, è dilagato un fenomeno che per noi conta e pesa quanto la sporta svuotata: l’abbandono dei cavalli.
Questa terra prima della crisi era il paese dei cavalli. In Europa ne deteneva la più alta percentuale per abitante. Non rari gli esemplari che potevano arrivare anche al valore di un milione di euro. Insomma, i cavalli erano uno dei punti di forza, se non il più avanzato, della prosperità economica del paese. La crisi ha rovesciato il tavolo: quasi nessun proprietario può più permettersi di mantenere il proprio cavallo. Costa troppo. Anche farlo abbattere è un costo, fosse anche di una manciata di euro. Quindi, abbandono. Che è gratis. E la pratica è talmente diffusa che le autorità hanno allo studio una sorta di amnistia per le violazioni di leggi che nessuno mai, prima, s’era sognato di trasgredire. Leggi da tutti volute e condivise, che tutelano il cavallo non solo nella sua integrità di essere vivente, ma come vero e proprio, e intangibile, patrimonio nazionale.
Se ne contano a migliaia, sparsi e persi nelle campagne. Gli animalisti e le loro associazioni fanno quello che possono, cioè lo zero virgola zero di quanto vorrebbero, e sarebbe, necessario fare. Per uno che ne salvano, cinque se li vedono stramazzare sotto gli occhi per fame. E anche quell’uno salvato dopo un po’ diventa un problema. Perché, comunque li giri, cura e fieno restano costi. Anche per loro. A microfoni spenti te la mostrano tutta la rabbia dell’impotenza: qui, se le cose non s’addrizzano, magari anche di poco, a quell’uno che siamo riusciti a strappare ad una morte per stenti, toccherà a noi, più prima che poi, chiudergli gli occhi. Si rompe il cuore a dirlo. Figurati a farlo.
Raccontano di esseri spettrali, carcasse semoventi, ossa tappezzate di pelle piagata, in cerca di niente, perché niente li può più salvare. Neanche il miracolo dell’ultimo momento. Quello che qualche volta capita persino a ‘dead man walking’, mentre conta gli ultimi passi lungo il corridoio del braccio della morte.
Ma l’abbandono non è il solo modo di sbarazzarsi di chi, fino ad un attimo prima, è stato un compagno sicuramente amato, curato, rispettato e l’attimo dopo viene trattato come un peso morto, che prima sparisce meglio è. Ne esiste un altro: macellazione intensiva da pulizia etnica.
IN AMERICA hanno riaperto i mattatoi. Li avevano chiusi, con tanto di legge, cinque anni fa. Su tutto il territorio nazionale. Non, ovvio, per gentile concessione. Ma perché le associazioni animaliste, quella legge, con un braccio di ferro degno della miglior tradizione lobbista americana, l’avevano conquistata. A dicembre scorso, dalla Corte Suprema contrordine: riprendete lo squartamento e dateci sotto a ciclo continuo. E un afflusso mai visto di cavalli si è riversato nelle gabbie della morte. E qui, colpo chiodato in fronte, uno via l’altro a dondolare appesi ad un gancio.
La reazione degli animalisti ha avuto una risposta stupefacente. Parecchio rozza dagli oppositori, a cui non è parso vero prendersi la rivincita contro questi quattro smidollati vegetariani che, con quell’altro bellimbusto di Obama, si sono creduti di diventare padroni del mondo; solo un po’ più infiocchettata dalle autorità. Ma sostanzialmente la stessa: meglio così che abbandonati, i cavalli. Cioè: meglio carne da macello lavorata e venduta che carcasse putrescenti sparse da per tutto e che, come se non bastasse, costerebbe l’ira di dio smaltire.
Ad occhio e croce, dice chi si è fatto due conti, ci sono un 400 mila cavalli da sventrare pronta cassa. Un bel business. Su cui il rilancio dell’economia americana può fare sicuramente affidamento. Altro che Lehman Brothers.
Un ingenuo potrebbe anche chiedersi: ma è questa la fine che ha da fare la leggendaria figura simbolo dell’epopea americana? Ma sì, chi se ne frega! La crisi non guarda in faccia nessuno. E poi, un po’ di memoria storica, che diamine! Non è stato forse il mai abbastanza compianto presidente Kennedy a dire ‘non chiederti cosa il tuo paese debba fare per te, ma cosa tu possa fare per il tuo paese’? E allora che anche i cavalli facciano la loro parte per uscire dalla crisi. Bentornato mattatoio. God bless America.
E DA NOI che aria tira? Non buona. Niente ancora di plateale. Ma di bocca in bocca corrono voci poco rassicuranti. Ogni tanto qualcuno si accorge che in questa o quella scuderia sparisce un cavallo. Ad occhio e croce non dovrebbe trattarsi né di rottura unilaterale, da parte del cavallo, del rapporto contrattuale né di separazione consensuale. Ci deve essere, allora, una terza spiegazione. Che nessuno, per il momento, osa neppure ipotizzare. Ma che in molti cominciamo a temere.





















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