L'ippica muore. Un delitto contro lo sport
C’era una volta un’ippica ricca e felice, nata dalla cosiddetta Legge Mangelli del 1942. Paolo Orsi Mangelli, detto “il conte di nailon” per essere stato tra i primi a capire l’importanza delle fibre sintetiche, era romagnolo e irruppe nel trotto con la sua capacità imprenditoriale, come allevatore e proprietario di scuderia. La legge n.315 consisteva in poche righe e avrebbe avuto bisogno di un regolamento di attuazione che non fu mai scritto. Mangelli la concepì d’accordo con Federico Tesio, il mago del galoppo, e riuscì a farla passare per la sua amicizia personale con Benito Mussolini. Quelle poche righe attribuivano all’Unione Nazionale Incremento Razze Equine la possibilità di accettare scommesse sulle corse dei cavalli sugli ippodromi e fuori di essi.
Fu una svolta epocale per uno sport che da sempre viveva di stenti e di passione. Gli ippodromi si attrezzarono con i totalizzatori e con i bookmakers, nacquero le Sale Corse, che furono chiamate poi Agenzie Ippiche e ora Agenzie di scommesse dato che sala corse pareva brutto. I soldi cominciarono ad arrivare a fiumi.
Gli ippodromi erano fatti per la bella gente. A Milano aveva scuderia Luchino Visconti, il quale confessò che si sarebbe dedicato al galoppo se il cinema non lo avesse affascinato di più. Avevano scuderia i fratelli Crespi editori del Corriere della Sera. Avevano un palco come alla Scala nobili, industriali, professionisti di fama, commercianti. Ernest Hemingway ha raccontato un pomeriggio a San Siro in un capitolo di Addio alle armi.
Nel parterre o al prato stava… la plebe, ovvero gli appassionati e gli scommettitori di piccolo cabotaggio, quelli in eterno conflitto con il banco, in esso comprendendo anche i clanda, ovvero i clandestini, persone che tenevano gioco sulla parola e senza autorizzazione ufficiale.
Andare alle corse era vivere una giornata particolare ma un pomeriggio in sala era altrettanto affascinante. Non trovavi i signori, i quali avevano una corsia preferenziale nel senso che giocavano direttamente con il proprietario o con il direttore (quanti clanda mai puniti!) ma tanta varia umanità: giovani e pensionati, italiani e stranieri, tutti competentissimi per cui ogni corsa scatenava discussioni e polemiche. Sì perché la chiave della scommessa ippica è soprattutto nella convinzione di ogni giocatore di essere più esperto, più furbo e più intelligente degli altri. La Tris, scommessa principe che l’UNIRE di Guido Berardelli e Alberto Giubilo aveva copiato dalla Francia, ora langue nelle agenzie come il parente povero tra i giochi. E pensare che nel momento del suo massimo splendore era stata capace di far nascere una banda in grado di truccare le corse con ingente impiego di capitali!
Tant’è. A questo punto, però, è opportuno un distinguo. L’ippica italiana sta morendo in Italia ma è viva e si fa onore all’estero, dove le nostre scuderie vanno a correre e dove i nostri professionisti, nel trotto e nel galoppo, sono apprezzatissimi (in Francia e in Svezia, soprattutto). E’ merito loro se cavalli come il galoppatore Ribot e il trottatore Tornese, i due che hanno contraddistinto il ventesimo secolo, non siano solo fantasmi del passato e la leggenda di Varenne, il più grande cavallo da corsa di tutti i tempi in Italia, sia ancora da prima pagina grazie al valore dei suoi figli nel mondo.
L’ippica di ieri ha visto in tribuna capi di stato come la Regina Elisabetta, i nostri presidenti Giovanni Gronchi e Antonio Segni e il presidente francese René Coty, politici del calibro di Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Ezio Vanoni, star come Alain Delon, Gina Lolllobrigida, Gigi Proietti, Nancy Brilli… L’ippica di oggi raccoglie le briciole: giorni fa solo 3700 spettatori, maledettamente pochi, alle Capannelle per il primo Derby di trotto nel tempio del galoppo. Già, perché Tor di Valle e San Siro sono chiusi e mai più riapriranno. Roma e Milano hanno perduto per sempre i loro ippodromi di trotto. Ciò non è solo il sintomo di una crisi irreversibile ma un delitto contro lo sport, tale che in altri Paesi sarebbe più che sufficiente a giustificare una specie di “processo di Norimberga”. Diciamocelo francamente, all’ippica sono mancati i campioni a due zampe, non quelli a quattro…
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per gentile concessione di repubblica.it