''Fieracavalli, perchè Milano non sarà mai Verona''
Caro Direttore, grazie per lo spazio che vorrai riservare a questa mia serie di valutazioni e ai lettori che avranno la pazienza non solo di leggerle ma anche di aggiungere loro, eventuali, considerazioni.
Pur non essendo un inveterato appassionato di ippica, debbo dire che il mondo del cavallo, forse per una serie di affinità anagrafiche e culturali, ha avuto una attrattiva particolare per il sottoscritto.
Lo ebbe anche più di trent’anni orsono allorché la Fiera di Verona decise di vestire “a nuovo” i suoi mercati zootecnici autunnali.
Da attento economista considerai l’operazione titanica, decisamente a rischio, per un contesto sociale assuefatto, ormai, alle sirene di una propensione consumistica molto lontana da questo animale pur avendo rappresentato, negli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto mondiale, un importante supporto alla ripresa delle attività economiche. In agricoltura, come nell’edilizia e nei trasporti.
Nonostante queste considerazioni, Verona, pur con la necessaria gradualità, ebbe un successo di attenzioni che andò, e tutt’ora va, al di là di ogni possibile previsione. Già, ma a Verona venne rifondata una cultura, una passionalità, che si è progressivamente diffusa nella società di ieri e di oggi, nelle giovani e giovanissime generazioni che hanno eletto il cavallo a “totem” di quella dimensione umana dell’esistenza che non intendono sacrificare sull’altare della modernità e del consumismo più dissipante.
In sostanza, il cavallo è divenuto il simbolo moderno di attività e momenti di evasione nuovi. Recuperò spazi ed attenzioni coperte dalla muffa dell’oblio, attivò nuove opportunità di reddito arricchendo l’offerta turistica di moltissime aree della nostra Penisola.
Oggi, sull’onda di questi successi qualcuno ha pensato, e con molta sicumera credo, che dare vita ad una nuova rassegna di cavalli rappresenti una opportunità, un affare.
Potrebbe aver ragione, anche se il passato, più o meno recente, documenta il contrario. Senza una riserva di entusiasmi, senza la volontà di creare un circolo virtuoso (che comunque “macina” denaro) nella cultura sociale, sarà molto difficile poter garantire a questi nuovi eventi le basi di un successo affatto effimero.
Mi è sembrato strana, dunque, l’enfasi con cui Milano ha celebrato il suo rito, divenuto ormai abituale, di cannibalizzare, direttamente o meno, il sistema degli eventi che si svolgono in Italia.
Forse le “sirene” dell’opportunismo e alcuni “cattivi consiglieri” sono divenuti paladini della demolizione di quella correttezza di rapporti che, sembrava, esistere nel nostro sistema fieristico. Neanche l’esperienza di MiWine è servita a renderli più cauti nella selezione di scegliersi i compagni che pensano di potersi cimentare in materie e lavori che non sono loro abituali.
Organizzare un evento fieristico non è semplice. Esperienza e professionalità, al di là di ogni possibile pretestuosa considerazione, non si inventano e soprattutto non è un abito adattabile ad ogni persona.
E poi sarebbe il caso che a qualcuno tornasse la memoria di una non lontana esperienza che Milano fece ospitando Eques, che “visse”, come recita il titolo di vecchio film, “una breve stagione”.
CESARE BOCCI