Cavalli in carcere e " La Solitudine dei Numeri Primi"
“I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell'infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri.” (da “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano)
Il progetto Cavalli in carcere mi ricorda un numero primo. Schiacciato tra altri progetti, ma un passo in là, un passo avanti. Non voglio togliere importanza ai tanti progetti rieducativi che si svolgono nelle carceri, ma di certo Cavalli in carcere era diverso, unico nel suo genere, confrontabile solo con se stesso.
Esattamente due anni fa, con una lettera certificata datata 30 aprile 2021 il progetto è stato chiuso, i cavalli traslocati, le strutture - dichiarate pericolanti a motivo della chiusura - distrutte. Distrutte, ma non rimosse; l’intelaiatura di ferro che per anni ha fatto da scheletro alla scuderia costruita pezzo per pezzo dai detenuti, è ancora lì ad occupare “lo spazio dei cavalli”.
Lo metto in evidenza perché questa parte di lavoro è stata una parte importante del progetto rieducativo. Cavalli in carcere non era Pet Therapy, non era Interventi Assistiti con gli Animali. Era un progetto di ricostruzione. La ricostruzione dell’animo umano di persone che avevano commesso reati, attraverso la costruzione di un centro di accoglienza per cavalli che arrivavano da situazioni di maltrattamento, da corse clandestine, da sequestri, da invii al macello.
Era un luogo di cura interspecifico che si è evoluto nel tempo. I pochi box iniziali non bastavano ad accogliere le richieste di procure, enti locali o persone singole che chiedevano asilo per cavalli che avevano bisogno di un luogo sicuro, e così lo spazio dedicato ai cavalli è stato trasformato in una vera scuderia.
Cavalli in carcere offriva ai detenuti un corso di formazione di tre mesi per conoscere il cavallo, la sua cura, la sua gestione e la gestione di una scuderia. La scuderia però non c’era! E nemmeno i fondi per poterla acquistare. Così, grazie ai talenti dei diversi detenuti che frequentavano il corso, il materiale di recupero proveniente dai cantieri vicino al carcere è stato trasformato in staccionate, pareti per box, finestre per box, capannine... Insomma, alla fine di questo lavoro di trasformazione la scuderia aveva 30 box, una selleria, una zona lavaggio, un fienile, un ufficio, un’aula per le lezioni teoriche, diverse aree di lavoro per i cavalli.
Non è del risultato finale di cui voglio parlare, ma delle emozioni che sono entrate in gioco da parte dei detenuti durante questo lavoro di trasformazione. Non stavano solo costruendo una scuderia, la stavano costruendo per i cavalli. Il cavallo era il mediatore silenzioso tra la richiesta e l’esecuzione della richiesta. Fare per i cavalli abbatteva ogni ritrosia, ogni lamentela, il senso dell’obbligo, la non volontà, dava uno scopo alla fatica. E questo senso di dedizione, di attenzione, di cura l’ho percepito sempre da parte dei detenuti che si sono avvicendati negli anni e che partecipavano ai diversi corsi proposti.
In scuderia non era importante il motivo per cui “eri dentro”, in scuderia si scendeva per prendersi cura dei cavalli. E, senza saperlo, di se stessi. Senza tante parole. Solo stando, osservando, facendo. Pochi dei detenuti che scendevano in scuderia avevano avuto prima contatti con i cavalli, tutti riuscivano dopo pochissimo tempo a creare una relazione con loro. Poche nozioni di base, qualche cenno di teoria e sulla sicurezza e poi era il cavallo che t’insegnava.
A Bollate i cavalli erano tanti e vivevano in branco, a volte un grande branco misto tra femmine e castroni, a volte tanti piccoli branchi divisi tra i vari spazi a loro disposizione. Avere la possibilità di interagire con cavalli in branco è un grande privilegio. Non hai un solo maestro, ma tanti e ognuno con la propria dinamica di relazione t’insegna una parte dell’educazione della relazione interspecifica.
E’ questa interazione tra branchi - quello dei cavalli e quello degli uomini - che dava unicità al progetto Cavalli in carcere. Quasi inconsapevolmente si dischiudevano paure, debolezze e punti di forza, emergevano talenti, affioravano sensibilità e capacità comunicative inespresse. Perché il cavallo fa questo, fa emergere ciò di cui non siamo consapevoli, indipendentemente da tutto ciò che è stato fatto fino al momento dell’incontro con lui, regalandoci infinite e sempre nuove opportunità di espressione e di crescita personale.