Trotto amarcord: il ''prato'' all'ippodromo Arcoveggio
BRUNO SCURANI è il nome d'arte di un professionista nato a Modena ma bolognese fin dalla prima infanzia. Ha girato il mondo e fa parte dello “zoccolo duro” dell’ippica, ossia è uno dei tanti piccoli scommettitori che, in agenzia o all’ippodromo, ogni giorno garantiscono il pane ai lavoratori e la biada ai cavalli. Ha scritto “I cavalli, che passione”, libro che nel sottotitolo rivela la sua essenza: “Come riuscire a non perdere alle corse dei cavalli”. Il racconto che vi proponiamo ha come titolo “Il prato”.
A QUEI TEMPI l’Arcoveggio aveva una vasta zona, posta di fronte alla tribuna centrale, una sorta di tribuna secondaria e popolare, che veniva chiamata “il prato”. Erano molti i motivi che mi spingevano ad andare al prato quando andavo alle corse.
Il primo era che l’ingresso costava meno, molto meno che alle tribune. Il secondo era che l’atmosfera del prato era molto diversa da quella delle tribune. Non c’erano i giocatori professionisti, mancava la tensione, la frenesia del gioco d’azzardo che spesso rendeva il parterre delle tribune simile a una bisca. Il terzo motivo era che i cavalli e la gente dei cavalli, come gli artieri, i ragazzi di scuderia, i guidatori in attività e quelli in pensione erano molto, molto più vicini. Non che non si giocasse al prato, ma era un gioco familiare come quello della tombola a Natale.
Spesso si facevano delle società improvvisate per arrivare alla giocata minima. Lo studio e le previsioni sull’andamento della corsa erano sicuramente più elaborati e più importanti della corsa stessa, che si svolgeva relativamente lontano e del cui ordine di arrivo esatto avevamo notizia dall’altoparlante qualche minuto dopo il termine.
Le scuderie erano a pochi metri, così come il tondino dove gli artieri facevano scaldare i cavalli prima della corsa o dove, dopo la corsa, i cavalli smaltivano il sudore e l’affanno.
Noi ragazzi qualche volta chiamavamo il guidatore e gli chiedevamo: sei pronto per vincere? E se lui diceva “Sì, sta bene”, correvamo a giocarlo.
C’era una piccola fontana per bere e grandi spazi per passeggiare in mezzo al verde. C’erano gli habitués che dopo un po’ diventavano amici e con i quali si poteva discutere di tutto, delle donne, dell’avvenire, del mondo, della vita.
Con uno di questi amici improvvisati ci siamo rivisti anni dopo e ci siamo subito sentiti vicini ricordando i tempi di Gaudenzia e di Frisco.
Il buffo totalizzatore era costituito da foglietti attaccati a una parete e resi validi da una speciale perforatrice. Quando la corsa partiva, calava rapidamente una serranda-ghigliottina a rete, che impediva di staccare altri biglietti e quindi l’impiegato doveva stare molto attento a non farsi schiacciare una mano.
Alla sera più di una volta, avendo perso fino all’ultimo centesimo, ci avviavamo a piedi verso il centro di Bologna, che non era lontano ma che obbligava comunque a una sana passeggiata di riflessione. Il prato era insomma la poesia dell’ippodromo ed è rimasto tuttora un parco aperto al pubblico, dove mamme e bamibini possono ammirare i cavalli in allenamento.





















.jpg)



