Olimpia story: a Londra l'epopea di Dorando Pietri
LONDRA 1908. De Coubertin punta gli occhi su Roma. Dopo i capitomboli di Parigi e Saint Louis, è a Roma che si chiede, in un ideale passaggio diretto, di ricevere il testimone dei Giochi risorti ad Atene. Roma, splendore di antichità. Il barone è fatto così: davanti alla maestà delle glorie antiche, lui si squaglia. Al di là della importanza educativa dello sport, che è vera; al di là del valore universale dei Giochi, che è indiscutibile, per lui le Olimpiadi sono essenzialmente palpiti del cuore. E’ per questo che, quando arriverà il momento, lo vorrà sepolto, il suo cuore, nella città di Olimpia. Il resto delle spoglie se ne potranno pure restare a Ginevra.
Dunque, è deciso: la quarta edizione delle Olimpiadi si svolgerà a Roma.
Naturalmente a Roma si sentono più che onorati della scelta. Ma più di qualche perplessità circola nella capitale di una Italia in cui la tranquillità non è proprio di casa. A Giovanni Giolitti, tanto per dirne una, tocca inventare il giolittismo per governare in modo da tenere insieme quello che insieme non sta. Le istanze popolari premono, ma anche la ricca borghesia non è che se ne sta zitta e buona. Ne ha di che lamentarsi. Soprattutto una cosa vuole, anzi esige: mettere, se non sotto chiave, almeno sotto controllo i socialisti. Che di grilli ne hanno mica uno per la testa.
Dall’altra parte i socialisti non sono da meno: vogliono liberare i lavoratori dall’oppressione e dallo sfruttamento della borghesia. Che almeno si mettessero d’accordo fra loro su come realizzare questa benedetta liberazione. Chi li capisce è bravo. Con alcuni, Turati per esempio, che è persona per bene, un discorso si può anche fare. Ha una idea moderata della politica, pensa che le cose debbano essere cambiate un po’ alla volta con le riforme. Ne è talmente convinto, il buon uomo, che sarebbe anche disponibile ad assumere responsabilità di governo assieme ai liberali, per avviare un programma di graduale cambiamento senza che nessuno debba farsi male. Ma non può. Ha le mani legate dai massimalisti, che dicono di essere socialisti come lui, però hanno una sola cosa in testa: la rivoluzione punto e basta.
TURATI lo sa che questi sciamannati prima o poi combinano qualche guaio. A chi glie lo dice risponde allargando le braccia sconsolato. Non ci può fare niente. Dio non voglia che lui e la sua componente riformista adombrino la più remota possibilità di concordare il potere un qualche minimo miglioramento delle condizioni del popolo. Quest’altri ci metterebbero mica niente a mandarlo al diavolo e farsi per conto proprio il partito della rivoluzione. Allora si che sarebbero guai seri. Insomma, per farla breve, i massimalisti tengono sotto schiaffo i riformisti e non aspettano che l’occasione buona per far saltare tutto in aria. Questi sarebbero capaci di approfittare pure delle Olimpiadi, quando gli occhi di tutto il mondo sono puntati sull’Italia. Magari non la rivoluzione, ma qualcuno dei loro scherzetti di sicuro. Ci si può mettere la mano sul fuoco. Ma c’è di più: quello che non arriverebbero a fare loro, lo farebbero senza pensarci neanche un secondo quei quattro forsennati di anarchici. No, lasciamo perdere. Meglio non rischiare.
Facciamo così: diciamo al CIO che siamo lusingati, ma purtroppo dobbiamo rinunciare ad ospitare i Giochi perché le condizioni economiche del Paese non lo consentono. Il che è anche quasi vero, nel senso che, diciamoci la verità, apparirebbe davvero una provocazione spendere soldi per questa manifestazione, quando da Roma in giù c’è mezza Italia che si muore letteralmente di fame. E, detto fra noi, pure da Roma in su non è che l’altra mezza se la passi poi tanto meglio. Con le dovute eccezioni, s’intende. Ma questo rientra nell’ordine naturale delle cose. Insomma, risolviamo così la faccenda e non pensiamoci più. Si, facciamo così, meglio non rischiare. Mai svegliare il cane che dorme.
Con Roma, dunque, niente da fare. Il CIO è nei guai per questo rifiuto. No problem, si fanno sotto gli inglesi, ci pensiamo noi. De Coubertin e tutto il CIO tiranno davvero un sospiro di sollievo. Senza la disponibilità degli inglesi a subentrare nell’organizzazione dei Giochi, non avrebbero saputo dove sbattere la testa. Infatti il ‘non possumus’ di Roma arriva a meno di un anno dalla data stabilità per le Olimpiadi. %%newpage%%
LONDRA NON DELUDE. Gli inglesi mettono in campo un assetto organizzativo che soltanto una vera e profonda cultura dello sport può realizzare. Un esempio per tutti: il White City Stadium. Un complesso in grado di ospitare, con il meglio delle attrezzature, la pista per il ciclismo, quella per l’atletica e una piscina per le gare di nuoto. Un vero e proprio villaggio olimpico.
La scrupolosa attenzione con cui si curano l’efficienza e la funzionalità degli impianti, è correlata dalla stesura di nuove regole e procedure che azzerano le colpevoli disfunzioni che avevano ridotto ad un colabrodo le due precedenti edizioni. Non sono più ammesse singole iscrizioni. Gli oltre duemila atleti selezionati per le gare vengono accreditati dai comitati olimpici delle nazioni per le quali gareggiano. In più i giochi si arricchiscono di nuove discipline. Il calcio, l’hockey su prato e il pattinaggio su ghiaccio diventano per la prima sport olimpici.
La cerimonia di apertura non può che essere, nella terra di Her Majestic, regale. Ma l’etichetta non si addice agli americani, che sono quelli che sono. Quelli, cioè, che abbiamo conosciuto a Saint Louis. Gli atleti d’oltre oceano si rifiutano di inchinarsi di fronte al palco della famiglia reale. Sgarbo inutile e gratuito. Che non può non attizzare il risentimento degli organizzatori con rigidi vincoli normativi sul controllo delle gare: le giurie potranno essere composte solo da commissari di nazionalità inglese. La richiesta di qualsiasi altro paese ad essere rappresentato in questa importante responsabilità viene respinta. Va da sé che gli atleti inglesi qualche vantaggio lo ricaveranno.
Il successo di immagine dell’Inghilterra è ribadito dal medagliere: gli inglesi sono al primo posto. Ma anche gli americani non sfigurano: vincono il maggior numero di gare di atletica. E fanno di tutto per vincerle, scorrettezze comprese. Come quella perpetrata, nella finale 400 metri, ai danni dell’inglese Halswell. Corrono in quattro, l’inglese e tre americani. Gli americani fanno un duro e sleale gioco di squadra. Durante la corsa, fra spinte, gomitate e sgambetti vari, impediscono all’inglese di fare la sua gara. Sotto gli occhi di tutti, gli americani la fanno davvero sporca. Ovvio che Carpenter, l’americano che taglia per primo il traguardo, si veda negare la vittoria. I giudici decretano che la gara deve essere ripetuta. Ma gli americani non ci stanno ad accettare questa decisione e per protesta non si presentano ai nastri di partenza. Halswell, solo soletto, si fa la sua camminata e prende l’oro.
C’È UN CURIOSO OSTACOLISTA, americano anche lui. Si chiama Forrest Smithson.
Gli fissano i 110 ostacoli di domenica. Lui, credente e praticante, non può gareggiare nel giorno dedicato al Signore. Però, allo stesso tempo non ha nessuna intenzione di rinunciare alla gara. Urge onorevole compromesso fra la fede nell’alto dei cieli la passione agonistica in terra. Corre con la Bibbia in mano. Dio è con lui: non solo vince, ma stabilisce anche il nuovo record del mondo.
L’Italia, con i suoi 68 atleti si porta a casa non un granché: due medaglie d’oro e due d’argento. Se gli ori, anziché due, fossero stati tre, le cose non sarebbero cambiate di molto, però…insomma lo sanno tutti, ormai è storia, anzi leggenda: quelle di Londra sono le Olimpiadi di Dorando Pietri.
Della maratona di Dorando non c’è molto da aggiungere a quanto non si sappia già. Tranne, forse, il fatto che se il solfato di stricnina, sostanza dopante che Pietri ha mandato giù durante la corsa, non si fosse combinato con la fatica e con il caldo, probabilmente gli ultimi metri prima del traguardo li avrebbe percorsi da solo anziché sorretto da un giudice di gara. Non prende l’oro, Pietri. Ma con quella rappresentazione di volontà spinta oltre i limiti dello spasimo, incassa l’avvio di una carriera sportiva che gli porterà ricchezza e fama.
Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, scrive di lui elogi che nessun atleta si è mai sognato di ricevere; Irving Berlin, il musicista compositore di ‘God Bless America’ e di ‘White Christmas,’ gli dedica addirittura una canzone intitolata, giustappunto, ‘Dorando’; la regina Alessandra d’Inghilterra gli dona una coppa che lo incorona vincitore morale della maratona. Che altro volere di più dalla vita?
Infine, ciliegina sulla torta: in una gara-spettacolo organizzata apposta per lui a New York si toglie pure lo sfizio di battere proprio quel Johnny Hayes che gli aveva soffiato la medaglia a Londra.
Forse sarà poco riverente verso l’epopea umana e sportiva, però la tentazione di fare il gioco del ‘se’ è forte. Proviamo.
Se un attimo prima della gara, davanti al Castello Windsor, dove la Principessa del Galles stava per dare il via ai 56 maratoneti, il sibilo di una voce profetica gli si fosse insinuato dentro con queste parole: “ Scegli: o vinci la medaglia d’oro e poi te ne torni al tuo mestiere di garzone di pasticceria in quel di Carpi, oppure schiatti di fatica fino a stramazzare per terra, perdi e in cambio ti saranno dati fama, gloria e tanto denaro”. Secondo voi, Dorando Pietri cosa avrebbe scelto?