I cavalli di Bollate e l'arte della cura
“Il male viene fatto senza sforzo, naturalmente, è l'opera del fato.
Il bene è sempre il prodotto di un'arte” (C. Baudelaire)
Esiste, al confine tra Milano e Bollate, un luogo che tutti conoscono (almeno “per sentito dire”) ma di cui non si parla né spesso né facilmente, se non per clamorosi fatti di cronaca. È il carcere, o meglio, la casa di Reclusione di Milano-Bollate.
La precisazione è d'obbligo, perché in questo Istituto giungono persone che al termine di un processo penale hanno avuto una condanna definitiva, ed è in questo luogo che iniziano, o proseguono, il percorso più o meno lungo della pena da scontare per i reati commessi.
Il carcere di Bollate gode di una favorevole opinione pubblica, ed è conosciuto dai più con la fama di “carcere modello”, sebbene pochi ne conoscano a fondo la struttura organizzativa e la realtà interna.
Per esempio, pochissimi sanno che, oltre quel muro che divide il dentro dal fuori, negli spazi verdi tra un reparto e l'altro c'è una scuderia attiva da 10 anni che attualmente ospita quaranta cavalli.
Molti pochi conoscono la storia di ASOM, l'Associazione che la gestisce, e degli ospiti che la abitano, che spesso trovano tra le mura del carcere una libertà mai conosciuta prima e la possibilità di tornare alla loro condizione più naturale di cavalli liberi.
A chi un po' conosce il mondo dei cavalli basta una visita per percepire le differenze tra la scuderia di ASOM (Associazione Salto Oltre il Muro) e i maneggi classici; ma anche chi non conosce bene questo mondo si accorge quasi subito che in questa scuderia si respira un'aria diversa: cavalli liberi di stare in branco con i loro simili, detenuti che si impegnano e lavorano quotidianamente per occuparsi di loro, uomini e cavalli che si relazionano con rispetto e fiducia. Attimi, momenti, gesti che regalano pace e benessere in chi osserva.
La domanda che spesso mi sono posta in quest'anno di volontariato in ASOM è come sia possibile tutto questo. Com'è possibile provare “benessere” (nella sua eccezione più completa di “stare bene”) all'interno delle mura di un Istituto Penitenziario? Com'è possibile sentirsi sereni in uno spazio limitato, chiuso e separato dal mondo esterno con un alto muro sorvegliato da telecamere?
Certo, in scuderia si sta all'aperto e non nei reparti con le celle, e a volte quasi ci si scorda di essere in un carcere. Certo ci sono i cavalli, animali miti, riservati e dal cuore grande; ma gli stessi cavalli si trovano in qualsiasi maneggio o scuderia esterni. Certo, i cavalli che lì vivono una condizione di vita naturale ed etologica, sono sereni e rilassati, curiosi e amichevoli. Certo, entrando in carcere ci si separa momentaneamente dal mondo esterno, si lasciano fuori pensieri, stress, frenesia quotidiana, cellulare... Ma tutto questo non è sufficiente a spiegare ciò che si sente e si prova frequentando la scuderia. Invece che sentirsi oppressi dalla chiusura e separazione dal mondo esterno che questa “istituzione totale” rappresenta, ci si sente bene e ci si “sta” sempre volentieri.
Mi sono interrogata spesso su quale sia “l'elemento magico” di questo posto e ne ho parlato molto anche con Claudio Villa, Responsabile della scuderia e Presidente dell'Associazione, oggi diventata ONLUS. La risposta che a mio parere calza a pennello, è arrivata un giorno, come un'intuizione: la realtà di ASOM è tanto bella e importante perché è un luogo in cui si pratica quotidianamente e con dedizione “l'arte della cura”.
La “cura” che qui si pratica non è certo quella intesa in senso medico (= risoluzione di un sintomo o di una malattia), ma è piuttosto quell'atteggiamento “di interessamento solerte e premuroso” (Treccani) che definisce la parola stessa. Una delle etimologie legate a cura, rimanda alla parola latina “coera”, cuore, e al detto in voga nel Medioevo:“quia cor urat”, cioè “che scalda il cuore”. La cura più vera e autentica significa infatti prendere a cuore, interessarsi e dare attenzione a qualcuno o qualcosa, che si traduce nell'atteggiamento dell'accudire. Se poi si abbina la parola “arte” (dal sanscrito “ar=andare, muoversi verso qualcuno”, ma anche maestria nell'operare secondo certe regole) il quadro è completo: praticare “l'arte della cura” significa muoversi e operare in qualcosa che scalda il cuore.
Questo è ciò che avviene quotidianamente in scuderia a Bollate: si accudiscono i cavalli e gli uomini detenuti che ci lavorano. Si curano gli spazi e gli ambienti. Si educa al rispetto e alle relazioni con il diverso e “l'altro da noi”. Si creano relazioni circolari, di amicizia, fiducia, reciprocità. Si danno nuove possibilità di sperimentazione e crescita personale, si offrono spazi di autonomia e responsabilità, prendendosi a cuore tutto ciò che si fa. Tutto questo, semplicemente, perché si ha a cuore il benessere degli ospiti di questo luogo, siano essi cavalli o uomini (e anche volontari).
Certo, non è un'impresa facile, soprattutto quando si è soli. Anzi, portare avanti “ad arte” la cura richiede impegno e fatica, e costringe ad essere sempre presenti nel “qui ed ora”, soprattutto per cercare di mettere in moto e far funzionare gli ingranaggi di una macchina complessa quale quella del carcere, tenendo insieme e in armonia varie realtà ed esigenze. I momenti di difficoltà e di sconforto non mancano, ma ciò che si è costruito lentamente e con cura resiste anche ai momenti negativi.
Chiunque abbia la fortuna di dedicarsi del tempo da passare in questo luogo, osservando i cavalli ospitati, paciosi e sereni, e gli uomini che lavorano collaborando tra loro, cercando di superare i loro problemi personali e le loro difficoltà, riuscirà a dare un senso profondo a queste parole. Respirerà un'aria di solidarietà e rispetto, tornerà a casa arricchito da questa esperienza, forse più sereno e gratificato, e, per quanto assurdo possa sembrare, desideroso di tornare in carcere al più presto.