UNA MERAVIGLIOSA "TRIPLICE"
Succede anche questo, a "Cavallo 2000". Di azzeccare una fantastica triplice (quella formula di scommessa in cui si indicano tre vincitori di tre corse diverse) che riunisce in queste pagine un indimenticabile e straordinario regista come John Ford; una galoppatrice formidabile ma sfortunata di nome Virginia; il più conosciuto e celebrato critico cinematografico italiano, Paolo Mereghetti, firma del "Corriere della sera" e autore dell'insuperabile "Mereghetti", tre volumi con oltre 35mila schede di altrettanti film. A lui dobbiamo la possibilità di ripubblicare a tambur battente un suo articolo scritto per il "Corriere" in occasione delle recentissime e celebrate "Giornate del cinema muto", festival che si tiene a Pordenone.
E' lì che è stato proiettato in versione restaurata, un film di Ford del 1924 intitolato "Kentuky pride" (in italiano "Galoppo di gloria" la cui protagonista, una splendida purosangue racconta di sé e della sua vita... tramite le didascalie in auge allora (il primo film sonoro è del 1929). Autrice della sceneggiatura una donna, una delle prime autrici di Hollywood.
Ma inutile rubare spazio a Mereghetti. Lo ringraziamo soltanto della sua gentilezza e della sua attenzione a "Cavallo 2000". Del resto, sfogliando le pagine dei suoi tre volumi sul cinema, ci si accorge che - caso più unico che raro - nelle schede di film che parlano di cavalli non c'è neppure una corbelleria. Evviva!
L’intelligenza dei cavalli non è certo un segreto, ma che sapessero anche «parlare», e in film muto per giunta, questa è una vera sorpresa, che si potrà scoprire durante le Giornate del cinema muto la cui quarantesima edizione si svolgerà a Pordenone dal 2 al 9 ottobre. Qui, restaurato dal Museum of Modern Art con i fondi della Twentieth-Century Fox, si potrà finalmente vedere Kentucky Pride (in italiano Galoppo di gloria) che John Ford diresse nel 1925 e che molti ritenevano perduto.
Il film racconta la storia di una purosangue, Virginia’s Future, con cui un ricco allevatore spera di rifarsi delle perdite al gioco (e riconquistare la moglie che lo tradisce) ma il giorno in cui partecipa al Kentucky Pride il cavallo cade a pochi metri dal traguardo e si azzoppa, facendo finire sul lastrico il proprietario. Tutto questo però lo scopriamo dal punto divista del cavallo, perché è lui che ci parla, che ci spiega e si spiega. Naturalmente attraverso le didascalie perché nel 1925 il cinema è ancora muto: in alto, a sinistra o a destra, il muso del purosangue fa capire allo spettatore a chi attribuire le frasi che aiutano a capire la storia che si sta svolgendo sullo schermo.
Così sappiamo che «la prima legge» che devono rispettare è «correre dritto, correre veloce», capiamo che dal modo in cui vengono accarezzati e toccati riconoscono le intenzioni delle persone, scopriamo il legame paterno che ha con lo stalliere (irlandese, naturalmente: il cuore di John Ford batte sempre per la sua terra d’origine) e soprattutto condividiamo con lei i momenti in cui si aspetta di essere abbattuta per colpa della ferita alla gamba.
Ma per fortuna lo stalliere non ha il coraggio di ubbidire all’ordine e il film segue la nuova vita di Virginia’s Future, questa volta come fattrice di purosangue, in un allevamento dove incontrerà alcuni dei grandi campioni di quegli anni, a cominciare da Man o’War e da suo padre Fair Play, ripresi da Ford per aumentare il senso di realtà del film.
Inutile aggiungere che la figlia, che la nostra cavalla metterà al mondo, Confederacy, sarà anche lei una campionessa a cui spetterà il compito di riscattare sia la caduta della madre che il destino del vecchio allevatore, caduto in disgrazia e ridottosi a vendere whisky di contrabbando. Il tutto in un trionfo di didascalie cavalline.
Naturalmente non è solo questa la ragione per cui Galoppo di gloria merita di essere visto e apprezzato. In questa storia possiamo già leggere i grandi temi che attraverseranno il cinema di John Ford – la disintegrazione della famiglia, il senso del dovere (anche per un cavallo) e la fierezza della propria tradizione (l’Irlanda, ancora l’Irlanda) – ma soprattutto si respira un piacere del racconto e dell’ambientazione nella natura (non si contano le scene in cui i cavalli galoppano liberi nei prati) che fanno già intuire le qualità dei suoi capolavori successivi. Senza dimenticare che la sceneggiatura è firmata da Dorothy Yost, una delle prime grandi scrittrici di Hollywood, la vera ideatrice dei cavalli parlanti.
Paolo Mereghetti