"L'ippodromo di Merano, un patrimonio da salvare"
Caro Direttore, apprendo dalla cronaca di Merano del quotidiano Alto Adige (Gruppo Espresso-la Repubblica) che il prossimo gestore dell’ippodromo di Maia potrebbe essere Pragma, Società locale che avrebbe optato per un numero di giornate di corse nel 2013 pari a 16 convegni, così polverizzando la prima delle due stagioni.
Posto che, stando ai pour parler intercorsi tra il signor Paolo Favero e l’attuale “impotente” gestione ippica nazionale, sarebbero stati accordati a Maia non meno di 23 convegni, a tutta prima verrebbe da osservare che, in tempi di vacche magre, anzi mummificate, la scelta di Pragma potrebbe essere vista come prudente e realista, alla luce della situazione non solo locale ma anche nazionale.
E però, nel marasma generale che vede S. Siro-trotto votato alla chiusura senza appello con conseguente fine del calendario milanese, dopo le esequie già avvenute per Padova, le voci allarmanti per Livorno e l’inchiesta anzi il terremoto giudiziario su Follonica, mentre è in atto una bagarre che ha riportato in sala rianimazione (dopo esserne uscita per qualche settimane) Napoli-Agnano, varrebbe davvero la pena che venisse posto un osservatorio permanente sull’ippica, prima che una classe politica che non sta a me definire (lo squallore cui siamo costretti ad assistere si commenta quotidianamente da sé) precipiti in un baratro da cui non si può risalire quella disciplina, l’ippica, che un tempo è stata lo sport dei re ed il re degli sport. Sì, ci vorrebbe un osservatorio nazionale, composto da tanti, piccoli osservatori locali. Che dovrebbero avere nei quotidiani locali la migliore e più attendibile lente d’ingrandimento. Un bene per questi ultimi, che sarebbero così in grado di partecipare – dopo aver sollevato le problematiche – anche alla loro soluzione.
Da quando, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, l’ippica si è messa nelle mani della politica - impegnandola a favorire una gestione assistenzialista (e qui è stato show autentico per decenni, in fatto di favoritismi, provvidenze, corsie preferenziali e quant’altro) che ha incoraggiato i privati ad allevare, ad avere colori e cavalli con la compiacenza di uno Stato complice – che di fatto come risultato finale ha solo favorito un declino impressionante e forse irrimediabile, in una realtà sociale in cui - archiviate la cultura e la grande tradizione italiana – da anni non si fa distinzione tra gioco e scommessa, gettando tutto (a partire dalla cultura di settore) in un unico, abominevole calderone. Perché il gioco è e rimane un azzardo, mentre la scommessa è frutto di studio e ricerca scientifica del vincitore, dunque di selezione accurata. Ma c’era da spolpare l’osso fino all’ultimo…
E POI, non parliamo di alcuni gestori di gioco assisi alla guida di ippodromi, altri a quella di giornali, tanto per non fare nomi Snai e Sisal Totip. Gli uni e gli altri sempre attenti alla politica del “Cicero pro domo sua”, mentre le avvisaglie della crisi già mordevano da tempo! Qui non si parla dell’ultimo lustro, ma degli anni Novanta con avvisaglie presenti già da tempo. Sì è sempre fatto finta di niente, ed oggi la montagna dell’indifferenza e dell’incuria più che decennali è smottata sull’ippica intera.
La situazione non è difficile, ma drammatica. Pensi, caro Direttore, che in Francia ed in Inghilterra, così come ad Hong Kong o negli Usa, (ma anche a Macao, a Singapore e addirittura nello Zimbabwe) a livello dirigenziale vengono sempre coinvolte le menti più brillanti, le professionalità migliori, pescate proprio nelle maglie dell’ippica: fa eccezione magari André Fabre, top trainer non solo di Francia, che siede lassù nell’Empìreo degli allenatori che ha preferito restare mente e corpo in pista. Ma tanti altri siedono sulle poltrone di France Galop (un tempo Societé d’Encouragement) e tengono saldamente la barra di settore, senza lasciare nulla al caso ma progettando e pianificando in modo impeccabile. Da noi, invece, i cavalieri capaci in sella e competenti a piedi, come sono guardati? Già, non sono proprio guardati, sono semplicemente stati ignorati. Devo fare dei nomi? Meglio di no: la realtà è sotto gli occhi di tutti e in molti casi sarebbe stato meglio avere un ex GR in ambito Unire, piuttosto che responsabile di un gruppo di cavalli a lui affidati. Si badi bene: non per incapacità, ma per necessità di tramandare cultura e tradizione che, oggi, vediamo (quasi) irrimediabilmente compromesse.
Le offro un solo dato: qualche anno fa, ad Hong Kong dovevano ristrutturare i due ultimi piani dell’ippodromo di Sha Tin, là in mezzo alla metropoli asiatica dove i cavalli per scendere in pista escono dai box e vengono messi sugli ascensori…. Ebbene, Le parlo del 2008-2009: Engelbert Bresges, il direttore generale (nativo di Colonia, Germania, voluto laggiù per la grande competenza e capacità), aveva preteso (e ottenuto) lo stanziamento di una cifra pari a 150 milioni di euro, paritetica allo stanziamento-premi a traguardo in Italia dell’anno in questione.
Sarebbe bene si smettesse di dire che “noi siamo poveri, quelle sono altre realtà” … Non dimentichiamo che da Nearco in poi, passando per Bellini, Tenerani, Ribot e compagnia cantando fino a Falbrav (stando nel settore del galoppo), abbiamo fatto scuola con il nostro allevamento e le nostre professionalità in tutto il mondo. Da ultimo, non solo Frankie Dettori e Mirco Demuro, ma anche i Botti (giovani) che sono “dovuti” espatriare. Senza che questa povera Italietta del cavallo avesse prima concesso loro l’abilitazione al training, così trovandosi impegnati a doverlo fare Oltralpe… Con danno evidente, se si guarda alla cosa con onestà intellettuale!
Insomma, ci siamo seduti, ci siamo accontentati dell’orticello di casa. Lascio perdere le considerazioni di Monti che ci vorrebbe… “germanizzati”. Ippicamente, ci starei, e so perché: avremmo autentiche chances di ripresa. Ricorda i von Oppenheim che dopo la guerra se ne erano andati a cercare e ad acquistare i loro cavalli, requisiti dalle SS? Oggi i tedeschi raccolgono quello che hanno seminato fin da allora e ancor prima. Come vorremmo dire al filo-teutonico Prof. Monti, che anche noi abbiamo personalità come Andreas Jacobs, che ha rilevato Baden Baden attraverso la “chiave di lettura” della sua Infront, il colosso mondiale del marketing, ma anche con la vicinanza di grandi portafogli di “veri proprietari” e “veri allevatori”.
E noi? Una società anzi una civiltà che non ha cuore e memoria per il proprio passato, non può avere futuro. Lo vediamo dalla mancanza assoluta di professionalità in sella: in ostacoli, tolto Raffaele Romano, non abbiamo eccellenze cui guardare con ammirazione. Un tempo, gli stranieri ci temevano, sia in piano (dove Gianfranco Dettori, Carlo Ferrari, Antonio Di Nardo & C a pari cavallo beffavano i vari Piggot4t, Pyers, Cauthen e St. Martin), sia in ostacoli dove da Coccia a Pacifici, passando per Santoni, Saggiomo, Baseggio, Oppo e un’altra decina di loro colleghi, mettevano in condizione le migliori fruste transalpine di “dover” tirare fuori il meglio del repertorio, per essere alla pari delle nostre cravaches.
Tutto questo non è più, ed ora “dobbiamo ringraziare” i fantini dell’Est che vengono a dare spettacolo e possibilità di presentare i programmi di corse, vista la morìa progressiva del nostro parco-jockeys. Ma questi pur decorosi professionisti, solo 20 anni fa (tolti il boèmo Bartos ed il giovanissimo Vana), un tempo non avrebbero mai potuto montare a Merano, “La Scala” degli ostacoli, dove ogni anno da sempre si radunava il meglio del turf nazionale e internazionale. Merano e Maia erano, come nella Belle Époque, il “cuore” mondano, vacanziero, culturale e sportivo di un mondo che non c’è più. E parlo di anni recenti, fino agli anni Ottanta e poco più in là, non di preistoria. Insomma, abbiamo iniziato ad uccidere, com’è prammatico ormai nella mentalità e cultura (imposte) occidentali, noi stessi. Ora, pare tocchi all’ippica, Vero, ministro Catania? Oggi, tutto è precipitato. Per cercare di mantenere in via anzi di ricreare il comparto- ostacoli, perché dottor Ruffo non si dà la chance a fantini e allievi (sovrappeso) da piano di riconvertirsi all’attività affrontando uno stages in ostacoili nella primavera meranese? Q ualcuno dice che “muoiono di paura”. Sicuro? Io non credo. Sono già fior di professionisti patentati, ed in tre mesi sarebbero in grado di debuttare in siepi. E sarebbe solo il principio, forse quello dell’0auspicata rinascita. Invece, eccoci alle prese col rischio di trovarci davvero in un percorso senza ritorno.
LE DICEVO, Direttore, nel presentarLe queste mie osservazioni, che mi ha molto allarmato il discorso relativo alla disponibilità a gestire Maia per 16 giornate. Perché mi sono scandalizzato? Ma perché siamo agli ultimi gradini della scala (ormai finita) dei valori minimi. Un ippodromo, per essere considerato (e remunerato) come “centro di allenamento permanente” deve disporre di un calendario annuale di non meno di 20 giornate. E, se i consiglieri tecnici di Maia sono la pisana Alfea e la romana Capannelle, la cosa mi allarma ancor più… Quanto abbiamo letto quassù risponde al vero? Spero ardentemente di no!
Perdendo questa caratteristica, incoraggeremmo anche a Maia lo sfratto dell’ippica già all’indomani della fine di un calendario. A vantaggio di chi? Dei consiglieri tecnici? Oppure dei palazzinari o magari di una certa politica retró? Prenda in mano, se ne ha ancora copia nel Suo ufficio, il “Fascino del Rischio” scritto da un grande narratore, Luigi Gianoli, con prefazione di Giulio Andreotti. Il divin Giulio, con la sua consueta, pungente e raffinata capacità critica, rammentava di essersi trovato sulla barcaccia di Maia vicino ad un senatore (Zanon, se ben ricordo) che guardava tutto ma non le corse. Ed era stato a quel punto che Andreotti era stato assalito da un dubbio, ovvero che il senatore in questione stesse computando quanti vagoni di mele si sarebbero potuti produrre su quei 35 meravigliosi ettari di verde (il vero “polmone” di Merano) che compongono l’area di Maia (gli altri 2 sono quelli di Borgo Andreina).
Essere fieri di Maia e cercare di riportarla ai fasti del passato? La domanda è pleonastica. Di certo, oggi più che mai vanno ricercate persone (e personalità) che non vogliano il piccolo cabotaggio ma abbiano ambizioni legittime. E persone che vogliano investire, ma non solo coi soldi di Stato o sotto l’ombrello degli Enti locali. Investire non per sé, ma per profondere un impegno socio-economico culturale vero, verso quel meraviglioso angolo di Merano che è Maia e che negli ultimi decenni, dopo la morte del mai troppo compianto Franco Richard (unico, “vero presidente” dal 1984 ad oggi), l’unica cosa bella che ha offerto al di qua dei suoi tracciati di corsa è stato il libro su Merano ed i suoi ippodromi, edito quest’anno. Una pubblicazione entusiasmante che ha fatto battere i polsi perché capace di riportarci in “quella Merano” e in “quell’ ippodromo”.
Per questo, ho perdonato con tutto il cuore un’omissione (grave) non solo storica, ovvero il fatto sportivo della prima edizione del Grande Steeple Chase Internazionale di Merano vinto dal Baron von Ludwigsdorf, premiato dall’Imperatrice Sissi d’Asburgo.
Il 21 dicembre non ci sarà la fine del mondo né ci sarà stata, se Lei pubblicherà queste mie righe dopo tale data. E non ci sarà (stata) neppure quella dell’ippica. E però, la fine di un certo mondo sì. Perché, se non abbiamo il coraggio di compiere il tanto atteso salto di qualità, soprattutto spirituale, la “betìse aux visage humain”, insomma la bestialità dal volto umano che ha tanto bene dipinto Bernard Henry Levy e che per secoli ha avversato il cammino dell’uomo (e nel nostro microcosmo anche quello di Maia), ancora una volta l’avrà fatta da padrona.
Cordiali saluti,
Giorgio Bergamaschi