L'Alta Scuola di Vienna tra fantasia e realtà
RACCONTO tratto dal libro “La milleduesima notte” di Joseph Roth (Adelphi Edizioni)
“... Lo Scia di Persia non lasciò il palco alla Spanische Reitschule (di Vienna – ndr). La sua scuderia a Teheran contava 2800 cavalli, ancora più scelti e più preziosi delle donne del suo harem: vi erano stalloni arabi, le cui groppe rilucevano come oro fulvo; cavalli bianchi del rinomato allevameto Jephtahan dal manto fine e morbido come la piuma; giumente egiziane mandate in dono del potente imano Arasbi Sur; cavalli delle steppe caucasiche, dono dello Zar di tutte le Russie; sauri di Pomerania acquistati con denaro sonante dall’avaro re di Prussia; animali semiselvaggi mandati di recente dalla puszta ungherese, inaccessibili a ogni mano d’uomo, sordi a ogni richiamo d’uomo, e tanto bizzarri da sbalzare di sella i migliori cavalieri di Persia.
Ma cos’erano tutti questi animali in confronto ai lipizzani della Spanische Reitschule? La banda militare installata sulla tribuna dirimpetto al palco suonò, dopo l’inno persiano, il Salvi Iddio. Per primo entrò cavalcando nell’arena un cavaliere in un costume persiano quale lo Scià aveva visto nei ritratti dei suoi avi, ma mai in Persia; portava un alto berretto di pelo d’agnello guarnito di cordoni dorati e intrecciati, un corto mantello azzurro ricamato d’oro che gli pendeva da una spalla, alti stivali rossi di cuoio greggio con speroni d’oro e una scimitarra turchesca al fianco. Una bardatura rosso sangue adornava la sua candida cavalcatura. Lo precedeva un araldo in livrea di seta bianca, cale bianche e scarpette rosse.
Al suono di una melodia persiana, che allo Scià sembrava ora di conoscere e ora no (era del maestro Nechwal), il cavallo bianco prese a eseguire movimenti pieni di eleganza e di spirito. Nelle gambe, negli zoccoli, nella testa, nella groppa: dovunque abitava la grazia. Nessuna parola, nessun suono, nessun accenno di comando! Era il cavaliere che comandava al cavallo o il cavallo al cavaliere? Intorno il silenzio era completo. Tutti i presenti trattenevano il respiro, sebbene sedessero così vicini all’arena che quasi potevano toccare cavallo e cavaliere, essi seguivano lo spettacolo con occhialetti e binocoli: non sembrava loro abbastanza vicino.
Il cavallo bianco drizzò gli orecchi; pareva trovasse diletto in quel silenzio. Il suo grande occhio bruno, umido, intelligente osservava di tanto in tanto i signori e le dame seduti in cerchio, li esaminava fiducioso e superbo, senza aspettare alcun applauso come fanno invece i cavalli nel circo. Solo una volta levò lo sguardo verso il palco di Sua Maestà, il signore della Persia, come se volesse di sfuggita informarsi di colui per il quale era stato mandato là; sereno e orgoglioso sollevò la zampa anteriore destra, ma solo un poco, quasi salutasse un suo pari. Poi si girò una volta su se stesso come la musica sembrava comandare. Poi ancora percorse leggero sugli zoccoli il tappeto rosso e all’improvviso, al suono dei piatti, spiccò un salto stupefacente e tuttavia nobilmente misurato, pur nella giocata baldanza. Si fermò di colpo, attese un attimo il dolce suono del flauto e, quando questo venne, lo seguì docile con trotto morbido, addirittura vellutato, in uno zig-zag appena accennato, quasi cedesse all’umore dell’Oriente. Per un poco la musica tacque e, in quella pausa di silenzio, si udì soltanto il lieve, delicato battere degli zoccoli sul tappeto. Nel grande harem dello Scià di Persia nessuna delle sue donne, per quanto egli potesse ricordare, aveva mostrato tanta grazia, dignità, leggiadria, bellezza quanto questo lipizzano della scuderia della Imperial Regia Maestà Apostolica.
Lo Scià aspettò la fine del programma con impazienza. La tranquilla eleganza degli altri animali che gli furono presentati, la loro grazia intelligente, i loro meravigliosi agili corpi che attiravano dedizione, fraternità, amore: la loro forte mitezza e la loro soave forza... Lo Scià pensava solo al primo cavallo.
“Compra quel cavallo” disse al Gran Visir.
Il Gran Visir corse alle scuderie, ma il direttore Turling, con la dignità di un imperial-regio ministro, gli disse: “Eccellenza, noi non vendiamo niente: noi regaliamo soltanto... se Sua Maestà il nostro Imperatore lo permette”.
Ma nessuno osò chiederlo a Sua Maestà".