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  • Cavalli e redditometro, quando il fisco
    diventa una ghigliottina
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  • 18/03/2011

Cavalli e redditometro, quando il fisco
diventa una ghigliottina

INVITIAMO a leggere e rileggere la lettera che Daniele Giaccone ci ha fatto pervenire l’8 marzo scorso. Racconta una vicenda che appartiene a molti. Ci piacerebbe, inoltre, che la leggesse anche qualche esponente del potere legislativo. Troverebbe nel racconto di Daniele la prova provata di quanto il fisco sappia essere, quando ci si mette di punta, vessatorio. E pervicacemente ottuso. Non abbiamo, purtroppo, soluzioni da offrire a Daniele. Però una parola vogliamo dirla ugualmente. E la rivolgiamo soprattutto a chi pensa di avere sensibilità di ascolto e potere di intervento.
Fissiamo subito un punto preliminare: secondo noi pagare le tasse non è ‘bello’, come ebbe a dire qualche tempo fa un ministro dell’Economia, ora purtroppo scomparso. Riteniamo, invece, che sia semplicemente necessario e, quindi, doveroso. Perché sul contributo di tutti poggia uno dei pilastri fondamentali della convivenza civile e, dunque, delle libertà di tutti e di ciascuno.  Allo stesso tempo, però, non vogliamo sottacere che in questo Paese la circolazione della ricchezza deve molto all’economia sommersa. Un molto che alcuni quantificano attorno al 17% del prodotto interno lordo. Altri si spingono oltre, fino a rilevarne un 25. Quale che sia l’entità del fenomeno, una cosa è chiara: nella correlata incidenza di illegalità fiscale risiede il più esteso e trasversale ammortizzatore sociale del paese. Si, d’accordo, lo sappiamo: è brutto, è sgradevole, è politicamente scorretto buttarla giù così. Ma sfidiamo chiunque a sostenere, e soprattutto a dimostrare, che le cose non stiano in questo modo. Tutti sanno che si tratta di un fenomeno che investe ogni ceto sociale e ad ogni categoria economica, con rilevanza che, sul piano nazionale, varia da territorio a territorio. In questo quadro, però, un dato è certo:  i lavoratori  dipendenti concorrono in misura del tutto residuale alla estensione e alla permanenza di questa realtà. E qui veniamo a Daniele, il quale, in quanto lavoratore dipendente, ha il suo reddito tassato, come si dice, alla fonte. Cioè, le tasse che deve pagare gli vengono direttamente detratte dalla busta paga. Però, poiché per il fisco Daniele, come tutti, è  pregiudizialmente potenziale evasore fino a prova contraria e non, all’opposto, corretto e fedele contribuente fino a prova contraria (la differenza di impostazione non è cosa di poco conto) è fatale che possano sussistere dubbi sulla quantità e sulla legittimità delle sue entrate. Attenzione però: diciamo ‘dubbi’, non ‘sospetti’. 

ED ANCHE QUI la differenza di significato non è irrilevante. Il dubbio è la leva, su cui poggia l’intelligenza critica, per sciogliere i nodi di una incertezza; il sospetto, invece, è il convincimento precostituito che si sostituisce alla certezza senza prove. Il fisco, nei confronti di Daniele, non ha tempo da perdere con gli intellettualismi del dubbio. Il sospetto basta e avanza.  A questo punto, uno potrebbe domandarsi: e sia!, ma questo sospetto dovrà, prima o poi, rivelarsi in qualcosa di empiricamente constatabile, o no? Ma certo, ovvio! Ci mancherebbe altro! Questo qualcosa è l’oggettività della ‘deduzione’. Che è un metodo infallibile: eleva a scienza esatta il principio di esclusione. Vale a dire: se una cosa non è così e non è neanche così, non può essere altro che per forza cosà. Il fatto, però, è che la deduzione può essere tutt’al più logica, ma non per questo automaticamente veritiera. Non è un caso che la deduzione, in punto di diritto, non basti, da sola, per comminare condanne o sanzioni. Non è prova. Tutt’al più sollecitatrice di impressioni, di indizi Che, se non suffragati da fatti, sono e restano espressioni di un pregiudizio. Ed è proprio con questa parola chiave, pregiudizio, che entriamo nel vivo della vicenda di Daniele. %%newpage%%
Ripercorriamola nei suoi punti cruciali.
E’ poco più di un ragazzino quando, nel 1992, i genitori, stremati dalle sue insistenze, gli prendono un cavallo, anzi un cavalla, di cui si è innamorato. Certo che costa: costa comprarla, costa mantenerla, costa attrezzarle un posto, anche se costruito con le proprie mani, che le consenta di vivere dignitosamente. Insomma, anche se non potrebbero, i genitori si caricano sulle spalle un sacrificio importante. Infatti, c’è poco da scialare con quello che il padre porta a casa con il suo lavoro di meccanico. Però lo fanno. Perché hanno capito che per il figlio questa cavallina non è un capriccio, non è l’estemporaneo sbuffo di un entusiasmo destinato a dissolversi appena girato l’angolo. E’ una vera e propria passione. Che Daniele dimostra di coltivare con il rigore e la disciplina di chi vuole conformare, in piena consapevolezza, la propria esistenza al rispetto dei fondamentali principi etici.
Daniele studia e si laurea.
Seguono anni di lavoro precario e finalmente, dopo tanto affanno, arriva il lavoro fisso. Con 1.600 euro al mese non si naviga di certo nell’oro, però almeno il futuro non è ipotecato da quelle angosciose incognite che stanno martoriando la vita a tanti giovani della sua generazione. E qui sbaglia, l’ingenuo. Perché, illudendosi di non aver nulla da nascondere, non prevede che il fisco gli sta già facendo i conti in tasca. E non è solo ingenuo, ma anche colpevole, partendo da quell’indefettibile, e gesuitico, principio secondo il quale la legge non ammette ignoranza. Infatti Daniele non sa, e neanche immagina, dunque ancora più colpevole, che la legge gli vieta di tenere con sé la cavalla e il cavallino che questa, nel frattempo, ha generato. Ma è mai possibile un’idiozia del genere? Eh,si! caro Daniele. Non solo è possibile, ma anche tassativamente certo. E dove sta scritto? Semplice: sul redditometro. E qui si rivela in tutta la sua sfrontata dissennatezza l’incuria con cui Daniele ha trasgredito il primo e supremo comandamento cui deve assoggettarsi ogni cittadino percettore di reddito. Vale a dire che Daniele, appena ricevuta la sua prima busta paga, invece di gingillarsi in trimalcioniche fantasie a base di ostriche, caviale e champagne d’annata, avrebbe dovuto subito confrontarla con le tabelle del redditometro, per rendersi conto di cosa poteva e non poteva permettersi con i suoi 1.600 euro al mese. Se l’avesse fatto, si sarebbe reso conto che il suo reddito era troppo basso per pagarsi la convivenza con i suoi cavalli. E che avrebbe dovuto subito disfarsene a norma di legge. E invece che ha fatto il gaudente e irresponsabile Daniele?  Si è messo a tavolino e ha detto: adesso vediamo come programmare la nostra vita facendoci bastare i soldi che abbiamo. E per ‘nostra vita’ intende: la sua, quella della sua compagna e quella dei suoi compagni a quattro zampe. Niente di originale, di surreale. Una normale, comune ‘nostra vita’, appunto.

“SBAGLIATO, sbagliatissimo, doppio errore blu”, gli ha detto il funzionario dell’ufficio delle imposte quando l’ha mandato a chiamare. La legge parla chiaro: per avere e mantenere i tuoi cavalli devi disporre necessariamente di un reddito dichiarato per 55 mila euro, cioè 27 mila euro per cavallo. Se ne dichiari solo 22 mila, come fai tu, vuol dire che sei un evasore fiscale. Allora, senti bene, caro il mio furbetto: intanto per gli anni 2007 e 2008 ti becchi una bella sanzione di 28 mila euro. Per gli anni a venire, poi, decidi tu: o ti disfi dei cavalli, o mi dichiari quanto stabilito dal redditometro, o ti becchi altre sanzioni. Ah, un’ultima cosa. Se ti illudi di poter fare ancora il gioco delle tre carte con il fisco, occhio alla galera.
Daniele, allarmato ma sicuro di non aver frodato niente e nessuno e ottimista com’è, chiarisce nella convinzione che si tratti solo di un equivoco facilmente risolvibile con l’inoppugnabilità dei documenti e la logica del buon senso. I cavalli, dice, non li tengo al circolo del polo, non corrono in pista e non fanno gare di equitazione. Non fanno neanche le corse clandestine. Non mi danno reddito. Li tengo con me in campagna, dove abito. Mangiano erba e fieno di casa. Per loro non spendo praticamente niente. Insomma, vivono con me da sempre, siamo diventati grandi insieme. Non sono un bene valutabile in denaro. Sono parte della mia famiglia.
Parole al vento. Il naso del funzionario non va oltre il redditometro. Magari è anche giusto così. In fondo è il suo mestiere tradurre tutto in numeri e i numeri in soldi. Ma su un punto Daniele non transige: non ci sta a passare per evasore fiscale, per delinquente. Il suo reddito è quello e quello dichiara. Ci sono le buste paga, ci sono i CUD  che l’azienda gli rilascia tutti gli anni. Non ha altre entrate.  E  men che meno occulte. E’ pronto a dare battaglia e a far valere le sue ragioni di persona e cittadino per bene. Ma il funzionario, con il beffardo scetticismo  di chi ha il coltello dalla parte del manico, che manco il padreterno glielo sfila, lo gela subito: “guarda, puoi fare tutti i ricorsi che vuoi. Puoi arrivare anche in Cassazione, se proprio non hai nient’altro da fare. Ma sappi che fai un buco nell’acqua, perché a noi non interessa quello che ci fai con i tuoi cavalli, se ci guadagni o ci perdi, se ci vuoi fare salsicce o se li porti in processione come la Madonna Pellegrina. Per noi, puoi anche fargli da cameriere a colazione, pranzo e cena, rimboccargli le coperte e dargli il bacio della buona notte. Fatti tuoi. Per noi sono un lusso che ti puoi permettere solo con minimo 55 mila euro l’anno. Se non li denunci tutti per intero vuol dire che la differenza con i tuoi 22 mila la racimoli in qualche altro modo. E io ti stango. Tutto qui. Niente di personale”.
Niente di personale? Invece c’è tutto di personale. Perché a Daniele il fisco contesta in realtà una scelta di vita, uno stile di vita. Il fisco gli dice che il modo stesso di concepire la sua vita è un lusso che non può permettersi. Vivere con i suoi animali è un reato. Questo non è un confronto. E’ un’allucinazione.
Signor legislatore, hai niente da dire sulla ghigliottina che si è abbattuta sulla testa di Daniele e che pende su quella un milione di altri Daniele? E’ tanto difficile capire che scegliersi un cavallo come compagno di strada non significa avere per forza un conto occulto in Svizzera o alle Cayman? E’ proprio impossibile accettare l’idea che con i soldi che mi guadagno onestamente, senza rubare niente a nessuno, ho tutto il diritto di gestire la mia vita come mi pare e piace, senza che nessuno ci debba mettere il becco?    

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