Fieracavalli, sempre più sagra dell'usa e getta
AVETE PRESENTE quando di una cosa si pensa che averla fatta o non fatta sarebbe stato lo stesso, e che anzi non farla sarebbe stato anche meglio? Ecco, questa è stata l’edizione appena conclusa di FieraCavalli a Verona. Diciamo la verità: ormai si tratta di un evento stanco e demotivato, in bilico tra deregulation e “saga della salsiccia”. Una manifestazione del tutto priva di un progetto, di uno straccio di filo conduttore che leghi insieme le varie realtà presenti, un evento messo lì, stancamente, solo per ragioni di calendario cui ottemperare con inerzia burocratica. Per decenni la manifestazione veronese ha rappresentato non solo un punto di incontro tra i tanti appassionati del settore, ma ha anche fornito spunti di riflessione e di stimolo, si è fatta partecipe del processo di crescita e di sviluppo dell’universo cavalli. Con i suoi limiti, certo, con le sue problematiche anche strutturali, sicuramente, ma comunque con un occhio sempre attento a quelle che erano le nuove idee e le nuove esigenze che emergevano dal mondo equestre. Tutto questo nella recente edizione è totalmente assente.
Ci siamo trovati davanti ad una brutta fotocopia che, di quel passato, ha saputo solo esasperare limiti e i disagi, soprattutto per i cavalli. E questo rappresenta un serio problema ed una grave responsabilità economica e culturale non solo per la stessa manifestazione ( ed indirettamente per la città di Verona), ma anche per l’intero settore equestre. Che speranza abbiamo di coinvolgere nuovi appassionati all’amore per il cavallo quando gli proponiamo la visione di un animale stressato, il cui sguardo, e chi se ne intende lo ha colto al volo, invoca pietà e costretto a muoversi facendo lo slalom tra mezzi meccanici, (che giravano tranquillamente in fiera a manifestazione iniziata e questo non si era mai visto), e che deve augurarsi che il suo cavaliere riesca ad arrivare in tempo a docciargli le gambe prima che …..l’erogazione dell’acqua venga sospesa?
Che ne è di quella funzione di crescita psico-pedagogica che per un bambino dovrebbe avere l’incontro con il cavallo, quando questo incontro avviene in un padiglione (storicamente problematico) all’interno del quale l’inquinamento acustico raggiunge limiti intollerabili per loro ( e figuriamoci per i cavalli!), con animali ridotti alla stregua di pupazzi di una giostra meccanica, in condizioni fisiche spesso non esaltanti e che di tutto hanno voglia tranne che di tentare un benché minimo straccio di interazione con chi che sia?
E perché ci si dovrebbe spostare da tutta Italia per andare a vedere qualcosa che somiglia sempre di più ad una saga di paese, invasa da stand che vendono cibo ( più o meno di strada) rischiando di finire travolti dalla prima carrozza lanciata al galoppo sull’asfalto ( quell’asfalto che, come tutti sanno, è una mano santa per i tendini dei cavalli), tra altri binomi equestri, pubblico e…. signore con il passeggino? E lascia davvero esterrefatti che qualcuno pensi che questo caos da brodo primordiale sia genuina espressione di tradizioni e folklori e, dunque, tratto distintivo di una fiera ‘popolare’. Giustificazionismo da cattiva coscienza. Non occorre, infatti, essere esperti di antropologia culturale per sapere che tradizione e folclore costituiscono sistema di valori identitari di una comunità. E allora la domanda: in questi giorni come è quanto è stata esaltata la comunità dei cavalli e dei loro appassionati? Che accoglienza organizzativa è stata loro riservata? Quale immagine di cultura equestre è stata rappresentata a chi, non conoscendo il mondo dei cavalli, si aspettava, forse di scoprire un mondo in cui cura, attenzione e rispetto nei confronti degli animali non sono solo moti dell’anima ma sanno farsi anche rigorosa professionalità? Non si è vista la disfunzione di qualche dettaglio. Si è vista una mentalità da usa e getta, fatta di scarsità di servizi … sembra persino nell’enclave della prestigiosa Coppa del Mondo Fei!
Ci si dirà che c’è la crisi, che molte regioni ( e il loro congruo contributo economico) erano assenti, che la presenza dei cavalli era minore forse di seicento unità ( e meno male, verrebbe da dire, altrimenti data la confusione della viabilità interna ci poteva scappare un serio incidente), che alcuni spazi espositivi sono rimasti vuoti, con ovvia riduzione dei ricavi. Tutto vero.
E allora per un attimo lasciamo i cavalli e parliamo di economia. In questa crisi chiunque si giochi del suo, sa cosa significa investire e innovare. Significa capire che un’epoca si è chiusa e che niente potrà restare come prima. Significa inventarsi un modo di stare al mondo che converta il futuro da minaccia in progetto. E per farlo occorre che crisi sia rigenerazione, prima che di mercato, di consapevolezza. Occorre cioè che la crisi sia sentita, anche individualmente, come propria per rimettere in discussione ruolo e funzioni . Chi, al contrario, dovesse illudersi di restarsene al riparo dietro protettorati e burocrazie che non vogliono meriti, ma fedele manovalanza, non vivrà il futuro né come una minaccia né come una promessa. Semplicemente non lo avrà.