Tango e cavalli, parola d'ordine empatia
Nascono così, a volte le riflessioni più interessanti: a tavola. Per la verità la pulce nell’orecchio la cara amica Maria Lucia Galli me l’aveva messa in una delle nostre telefonate durante l’organizzazione del corso di formazione “Comunicare (con) il cavallo”. A un mio sfogo, o meglio battuta: – Menomale che mi sono data al tango! – Lucia, sorniona, ha risposto:
– E non te lo sei chiesto perché?
– Bè perché mi piace, e poi non potendo più andare a cavallo è l’unica attività che mi trasmette, non ci crederai, alcune sensazioni simili.– Ma va’? Tu pensaci.
E così ha chiuso la telefonata, la saggia Lucia che, oltreché donna di cavalli è una psicologa, sulle spalle un bagaglio di qualche anno di esperienza. Fa così Lucia, la butta lì, come una briciola lasciata cadere a terra, sapendo benissimo che invece di casuale non c’è nulla: sta indicando una strada. Poi ormai conoscendomi bene sa perfettamente come suscitare la mia curiosità. E così mi ha lasciato con un palmo di naso, io un collegamento tra la passione per il tango e quella per i cavalli francamente non lo avevo fatto. O meglio, l’Argentina che è patria di questo meraviglioso ballo è anche terra di cavalli naturalmente, quindi il connubio lo avevo più che altro visto in questo senso. Un po’ come in Andalusia, dove flamenco, musica e passione per i cavalli fanno parte dell’anima, della tradizione e della vita di tutti gli andalusi.
Da questo accenno però ho iniziato a pensarci, anche se avevamo un bel da fare in vista della giornata del corso, ed è stato proprio quando ci siamo finalmente incontrate, a cena, che ho tirato fuori l’argomento.
– Adesso che ci vediamo e abbiamo un attimo di tempo – ho detto a Lucia – me la spieghi questa cosa del tango e dei cavalli, insomma il fatto che secondo te ci sarebbe una similitudine, un collegamento stretto tra queste due attività?
E così abbiamo iniziato a trattare l’argomento, estendendolo anche agli altri commensali, tra i quali l’amica e collega Paola Olivari.
Il tango – sebbene non sia certo facile ricostruirne le origini e ci sono diverse teorie che non staremo qui ad analizzare – nasce alla fine dell’Ottocento nei sobborghi di Buenos Aires e di Motevideo, quando le grandi città erano meta di massicci movimenti dovuti alla forte immigrazione, sia dalle campagne circostanti che dalle nazioni europee. È il frutto senz’altro di una alchemica mescolanza tra diverse culture che, in questa terra e in quel momento storico, si sono trovate a contatto: quella sudamericana in cui è nato, con i gauchos provenienti dalle pampas, quella europea, poiché da questo continente provenivano gli emigranti (Italia, Spagna, Polonia, Ungheria) e infine quella africana, da poco affrancata dalla schiavitù, che ne ha molto influenzato il ritmo. Non dobbiamo immaginare qualcosa di idilliaco: la condizione delle persone emigrate non era facile, partite con grandi sogni si trovavano ad adattarsi a lavori umili, a vivere nelle periferie, le orillas o arrabal, in case molto povere e in condizioni di forti ristrettezze.
E così, è qui che ha origine questo ballo, per le strade, nei bordelli, come un prodotto multiculturale, una fusione di generi e storie diverse, il frutto che nasce spontaneo dall’incontro tra persone che condividono un destino di povertà e disagio, il cui cuore trabocca di nostalgia di casa, ma anche di voglia di vivere, di riscattarsi, di esprimere e condividere le proprie emozioni, spesso molto forti, attraverso un linguaggio universale: quello della musica e quello del corpo.
Solo successivamente il tango diventerà una vera e propria forma artistica, esportata e apprezzata in tutto il mondo: negli anni Trenta e Quaranta del XX secolo la danza e soprattutto la musica del tango conobbero il massimo sviluppo artistico. Tra l’altro i più noti compositori proprio dell’età d’oro, neanche a dirlo, sono tutti figli di italiani: Julio de Caro, Aníbal Troilo, Juan D'Arienzo, Carlos Di Sarli, Osvaldo Pugliese, Francisco Canaro.
Torniamo al ballo, altrimenti ci dilunghiamo troppo senza arrivare al tema della discussione della nostra cena.
Non si può ballare senza cercarsi, incontrarsi, comunicare. Non si può ballare restando ciascuno se stesso, occorre diventare un po’ l’altro, occorre diventare, insieme all’altro, qualcos’altro. E non sarà mai la stessa cosa, ma sempre diversa. Ogni coppia balla in modo diverso e perfino due stesse persone formeranno qualcosa di nuovo, di inaspettato, di improvvisato, ogni volta che balleranno e non possono saperlo nemmeno loro, non si può prevedere. Se è vero che esiste la tecnica, l’esperienza, è altrettanto vero che nulla vale senza metterci l’anima. Senza mettersi in gioco, lasciando da parte la razionalità per farsi trasportare solo dall’ascolto della musica e ancor più dell’altra persona: un piede dopo l’altro tessere una stoffa inaspettata, non pensata, che prende forma man mano che si balla. Non prima, non dopo, lì, in quell’istante e non altrove.
Se dunque ballare il tango significa nelle parole di Rodolfo Dinzel “Ricercare costantemente l’idea di comunione fra due corpi in un’unica struttura dinamica, cedendo, adattandosi e completandosi a vicenda, proprio come nella vita” abbiamo già capito molto del punto a cui la saggia Maria Lucia Galli intendeva arrivare gettando quella briciola, prima tappa di un sentiero che dunque portava proprio a questo.
Emozione, energia, respirazione, contatto, empatia, capacità di ascolto.
Stiamo parlando del tango? O anche di qualcos’altro?
Scommetto che il lettore di Cavallo2000 leggendo queste parole non si è immaginato due ballerini di tango, o almeno non loro soltanto. Inevitabilmente la sua mente sarà andata a un altro tipo di “coppia”, o meglio di binomio: cavallo e cavaliere, naturalmente.
Chiunque desideri non mettere meccanicamente in atto una qualche tecnica appresa più o meno bene o semplicemente salire su un cavallo e farci qualcosa, conosce molto bene che cosa significa entrare in ascolto, e in sintonia, con l’equide che ci si trova sotto al sedere. Perché se ci si affida soltanto alla “tecnica” non si capirà mai fino in fondo l’animale con il quale stiamo entrando in contatto ed esso non potrà realizzarsi. Inoltre quel contatto, proprio come l’abrazo tanguero, non sarà mai uguale, perché, perfino con lo stesso cavallo che conosciamo bene e montiamo ogni giorno, cambierà a seconda del nostro umore, o del suo, del nostro stato d’animo o di mille altri fattori; perciò ogni volta, ogni sacrosanta volta che ci avviciniamo a un cavallo accade qualcosa di nuovo, di magico, di inaspettato: occorre mettersi in ascolto, aprire il cuore e la mente per coglierlo e “danzarlo” con lui, in quel momento, che forse, anzi quasi sicuramente, sarà irripetibile.
E aggiungo l’importanza del contatto che avviene attraverso le mani: così come nel tango le dita, la pressione del palmo, stabiliscono questo contatto, altrettanto è proprio la mano a cercare la bocca del cavallo, a sentirne la delicatezza, la fragilità e al tempo stesso l’importanza di mantenerlo, il contatto, un equilibrio complesso, una ricerca continua che ha a che fare con la propria sensibilità, capacità di “sentire” e di trovare il punto comune in cui finisce la mano e inizia la bocca come se fosse un continuum. E che dire poi della postura, della posizione del corpo, dell’apertura del petto, come se un “gancio” ci tirasse verso l’alto, per citare Sally Swift che nel suo Centered riding (More than a Horse, 2022) esemplifica questo concetto con un chiarissimo disegno? Ancora: le gambe, sempre la Swift, che dobbiamo pensarle ad allungarsi fino a terra, piantarsi, mettere radici come un albero, anche qui un bellissimo disegno rende bene l’idea, mentre il busto si alleggerisce, il petto si apre e ricerca la tensione verso l’alto: punto di stabilità, come se fosse il piano di un tavolo, sono le anche e il bacino.
A questo punto voglio scomodare qualcuno che possa assai meglio di me fare una sintesi di quanto detto fin qui, e affidare così alle sue sapienti parole la conclusione, inconfutabile, di questo ragionamento: Nuno Oliveira.
[So benissimo che sarebbe offensivo spiegarlo a voi amici cavalieri chi era costui, ma se qualcuno per caso non lo sapesse, quest’uomo, nato nel 1925 e morto nel 1989, portoghese, è stato l’ultimo grande maestro dell’equitazione classica, un genio senza pari in questa materia – consiglio i quattro volumi L’arte equestre di Nuno Oliveira, ripubblicati da More than a Horse e curati da Giovanni Battista Tomassini].
Ecco dunque alcune sue frasi:
- Ci sono due cose in equitazione: la tecnica e l’anima.
- L’equitazione non è una scienza esatta. Bisogna sentire e non avere un sistema dentro alla testa.
- È buona cosa, ogni tanto, montare con gli occhi chiusi.
- In equitazione, non può esserci un vero metodo, perché ogni cavallo è un caso a sé.
- L’arte equestre è fatta da una quantità infinita di piccoli dettagli e del sentimento del cavaliere.
- Bisogna sentire ed andare fino all’emozione.
Leggendole, non avete forse pensato che queste parole, e i principi che le sottendono, sarebbero applicabili, allo stesso modo anche per due ballerini di tango? Come si può pensare infatti di ballare con la sola tecnica, ma senz’anima? Avrete poi fatto caso che molto spesso i ballerini tengono gli occhi chiusi, proprio per ricercare e vivere pienamente l’emozione e il sentimento.
Ecco dunque spiegata, e naturalmente confermata, con l’assenso autorevolissimo di uno dei più grandi maestri, la teoria della nostra Maria Lucia: la passione per il tango e quella per i cavalli hanno molto in comune, e non è così difficile capire di che cosa si tratti.
Chi ama i cavalli e ha provato che cosa rappresenta quell’alchimia di coppia che si crea con questo meraviglioso animale, capisce perfettamente che cosa significa “ballare il tango”, alla ricerca del contatto profondo, “fino all’emozione”. Poi, esattamente come con i cavalli, non è detto che ci si riesca, ma questa è un’altra storia e forse non basta una vita.