Omaggio a Luigi Gianoli il poeta dei cavalli
DIECI ANNI sono passati dalla morte di Luigi Gianoli: ufficiale di Cavallerie e poi nel Comitato di Liberazione e giornalista tanto acuto e sensibile da essere definito “il poeta dei cavalli”. Cavallo2000 vuole rendergli omaggio riproponendo lo splendido articolo che egli scrisse quando La Gazzetta dello Sport gli dedicò una pagina per festeggiare i suoi 40 anni di lavoro nella “rosea”.
DEVO CONFESSARE che la “Gazzetta” è stata per me qualcosa di più di un giornale: è stata, posso dire, la casa, è stata ed è la vita, perché ci bazzicavo ancora bambino con mio padre e le prime cartelle le battei in redazione quando frequentavo il ginnasio, il liceo. Scrivevo di corse, di cavalli finché Bruno Roghi, cui ero legato dalla comune passione per la musica e per i cavalli, e per la letteratura, mi invitò a tentare dei pezzi per la terza pagina. Li tentai, ero intrepido, avevo 18 anni; e Roghi, più intrepido di me, li pubblicò. Studiavo musica, ero all’università quando venne la guerra e mi toccò affrontarla in una strana, allucinata, anacronistica ma eroica campagna a cavallo dalla Jugoslavia alla Russia, fino al Don, in un favoloso reggimento, il Savoia Cavalleria.
Educato all’antifascismo dal generale Cadorna, un antifascismo forse di maniera, che non ci evitò comunque di impegnarci lealmente in marce estenuanti, in cariche leggendarie, in battaglie a cavallo per vincere e sopravvivere.
E così i cavalli continuarono ad essere, in maniera un po’ diversa, il leit-motiv della mia vita. Alcune mie lettere dal fronte vennero pubblicate dalla “Gazzetta”. Tornato in Patria dopo due anni, ci aspettavano i tempi tragici dei bombardamenti, del maldestro armistizio e l’impari lotta con i tedeschi, della vita clandestina, della lotta partigiana con l’arresto, per mia fortuna operato dalla Wermacht e non dalle SS, e la prigione.
Riuscito ad evitare la fucilazione e la deportazione, recuperai la libertà grazie all’intervento del cardinale Schuster e alla connivenza del vicecomandante di San Vittore, un giovane caporale bavarese che della guerra ne aveva abbastanza. Un giorno, si era in febbraio, incontrai in Via Nino Bixio Bruno Roghi, anche lui alla macchia. “Appena succede il patatrac, tu vieni subito con me alla Gazzetta” mi propose, anzi mi ordinò. E difatti il 26 aprile del 1945 lascia per mezz’ora la sede del Comando del CVL (Corpo Volontari della Libertà), in Piazza del Carmine, dove Cadorna teneva in pugno la immane metamorfosi bellica e politica della Padania, per correre in Via Galilei ad apporre la mia firma sul registro della costituenda redazione della Gazzetta dello Sport, nel famoso, vetusto palazzo assalito come un castello antico da una folla vociante che tentava di espugnarlo. Erano gli emissari dei partiti che se lo disputavano. Ma Roghi aveva posto nei punti-chiave pedine e difese sicure.
E così cominciai, bene o male, con molte ambizioni e molta goffaggine, questo mestiere meraviglioso fatto di parole, di immagini, di coscienza, di infromazioni prossime o quasi alla verità, una strada in salita per rappresentare la realtà con una scrittursa “artiste”, secondo l’epoca zeppa di lirica e di aggettivi.
NEL 1946 assunsi anche l’impegno di critico musicale sulle colonne del giornale Italia, lavoro che mi permise di godere dei più begli anni musicali di Milano e di Italia, col recupero del melodramma, momenti indimenticabili con il ritorno di Toscanini, di Furstwaengler, l’astro di Maria Callas, i prodigi di De Sabata, di von Karajan, di Luchino Visconti, di Strehler, anni leggendari e irripetibili che ci restituirono i valori più alti del teatro in musica.
Vennero i libri, intanto, scritti con la gioia di un cimento personale di fronte a tutti, una prova con se stessi al di fuori delle colonne del giornale. Bassani, Soldati, Ferrero furono i miei maestri mentre alla Gazzetta passavano i direttori: dopo Roghi, De Martino, poi Ambrosini e Brera dall’impareggiabile stile, e quindi Zanetti, che mi affidò anche il tennis e mi inviò dappertutto a scrivere e a compiacermi dello splendore del mondo. Dopo l’impegno di Griglié, ecco l’avvento di Gino Palumbo. Fu come se a un cavallo vissuto in folle libertà, fosse stato imposto repentinamente il freno. Ci furono incomprensioni, per presunzione mia s’intende, tensioni, alcune comiche come quando uscii dalla stanza del direttore proclamando “Ebbene sì, due cose detesto: il giornalismo e lo sport” concludendo arcigno una scena madre che divertì molto Palumbo, il quale, in verità, mi insegnò – era forse un po’ troppo tardi – a fare il giornale, cioè quel giornalismo fatto di sacrificio, di umiltà, di articoli dalle righe contate, quaranta righe, non una di più non una di meno.
In verità era troppo tardi ma fu giocoforza imparare la verità sotto quel severo ma affascinante maestro al quale mi stringe ora un legame tenero e affettuosissimo.
Per ultimo Cannavò, col suo spirito fraterno, le sue trovate acute, le sue finte e divertite tirannie. E così sono passati quarant’anni alla scrivania, in treno, in aereo, in macchina, una vita in continua tensione, una vita impaziente che ci condiziona al punto da non saper più gustare le ore di pace, incalzati dall’urgenza di consegnare l’articolo per tempo, e che somiglia all’urgenza stessa di vivere.
MA QUANTO TEMPO è passato, come è stata lunga la vita! Forse troppo lunga. E dire che continua ancora, uguale, implacabile verso l’estremo appuntamento con la speranza di arrivarci in piena letizia e con la soddisfazione di avere sempre fatto il dovere di uomo e di giornalista.
Oggi mi stringono la mano colleghi e amici, manifestandomi una profonda commozione per la mia esemplare fedeltà alla Gazzetta. Ringrazio anche se questo lungo amore pesa nel conto degli anni e mi spinge a chiedermi: sarà stato proprio amore o non pigrizia o non mancanza di fantasia? Oppure che mi sia trovato nella situazione grama di quella moglie che non ha mai tradito il marito perché non richiesta, non corteggiata da nessuno?
Accontentiamoci della fedeltà, che fa sempre molto effetto in tempi in cui trionfano spesso gli infedeli.