Jaqueline Freda, Relived Horses ed il fascino del galoppo
“Ho sbagliato!”
Mi sarebbe piaciuto parlare di un’opera legata al mito delle amazzoni; avrei voluto dirvi di quel fregio del Partenone o raccontarvi di Pentesilea e farmi aiutare in questo, come è nel mio segno, da una figura del mondo equestre. Avrei dovuto trovare una donna certo, una personalità forte, un nome che nel mondo dell’ippica spiccasse. Qualcuna che avesse combattuto e vinto magari, non solo contro un uomo, ma contro un gruppo di uomini.
Cosi la punta del mio dito è scivolata su una lista lunga trent’anni e si è fermata lì: 1995, Frustino d’Oro, Jacqueline Freda.
L’ho cercata, sono arrivata a lei, le ho parlato in una chiacchierata di quelle che ti lasciano più di quanto tu possa chiedere e a quel punto, solo allora, ho capito che avrei sbagliato.
Jacqueline Freda, prima “fantino” (come ama definirsi senza velleità femministe) ad aver vinto un premio ancora fino ad oggi solo maschile ha passato una vita a cavallo, tra uomini, ma con loro non c’è mai stato conflitto. Vi è stata competizione, ma non ostilità. È stata necessaria la forza per competere nell’agonismo, ma non quella dei guerrieri paraolimpici: lei aveva un fisico atletico, una buona tempra e molte possibilità come quella di nascere Freda, figlia di Riccardo Freda regista e sceneggiatore apprezzato in Italia e all’estero, proprietario di una scuderia da trotto e amante dei purosangue. La carriera equestre di Jacqueline non è solo influenzata da un cognome e da una costituzione vigorosa seppur esile, ma anche da incontri campali con uomini che diventano maestri, come Bartalucci e D’Inzeo, che modellano questa fibra adeguandola alla corsa, alla competizione, al coraggio, ma non alla guerra. Meno che mai a una lotta fra sessi. Per questo non posso definire la Freda un’amazzone riferendomi alle figure della mitologia greca.
“E allora quale opera?” ho continuato a domandarmi.
Mi sono alzata fino all’ultimo scalino delle gradinate dell’Ippodromo di San Rossore; a quell’ora il sole buca gli occhi quando guardi la pista e non puoi che seguire la scia dei cavalli in corsa per poi perderli per un istante quando affrontano la curva, eppure sulla dirittura d’arrivo, quando il loro galoppo si è lanciato sulla linea della vittoria, lì ho capito. La risposta è in quel movimento: l’arte che meglio la rappresenta, la sua passione più grande, l’amore che rimane nel segno del padre, da cui le corse la allontanano, ma a cui torna quando decide di abbandonarle, all’apice della carriera proprio quando lui muore, è semplicemente il cinema.
Jacqueline Freda non è stata solo un grande fantino le cui vittorie vanno ben oltre quella del Frustino d’oro, ma anche stuntwoman e Horse master presente in molte produzioni cinematografiche e ancora oggi il cognome dei Freda è nei titoli che scorrono alla fine dei film, però ora è quello di Jacqueline legato a doppio nodo al mondo equestre.
C’è un’opera che unisce cavalli e cinema e destino vuole che nasca lungo il perimetro della pista di un ippodromo, dicono per una scommessa, quella che fece Leland Stanford, l’industriale che fondò la famosa università americana. Il magnate, appassionato di equitazione e affascinato dagli studi che si tenevano nella seconda metà dell’ 800 sull’andatura del cavallo, volle indagare sull’istante in cui al galoppo sfrenato l’animale stacca contemporaneamente tutte e quattro le zampe da terra e per farlo ingaggiò Eadweard Muybridge, già allora stimato fotografo che riuscì con una rapida successione di fotografie a rappresentare il reale movimento dinamico del cavallo, quello che all’occhio umano sfugge, e si scoprì che nel cavallo non corrisponde a quello dipinto fino a quel momento dai pittori come Géricault in cui il cavallo è con le gambe distese, ma quello in cui sono raccolte, piegate sotto al ventre.
Solo in quell’istante il cavallo, poeticamente, vola.
Fino ad allora i pittori che avevano rappresentato il galoppo volante, si erano sbagliati!
Le opere di Géricault, imitano la corsa, ma in modo irreale e non con una documentazione scientifica come lo studio di Muybridge. Riportano il movimento sulla tela come una sua esperienza soggettiva, la sua percezione, e anche se le sequenze fotografiche virano all’oggettività, non contraddicono la resa della pittura che ha logiche sue che non sono quelle della riproduzione meccanica della realtà, ma di una trasformazione espressiva.
La fotografia, e grazie allo zoopraxiscopio, strumento inventato dallo stesso Muybridge e antenato del proiettore, rimanda una visione reale, oggettiva della corsa. Riconsegna all’occhio umano il vero ritmo delle gambe del cavallo, ma è solo quando vengono proiettate che l’immagine diventa cinema.
E così succede anche a Jaqueline Freda, la sua vita riacquista autenticità quando la sua passione per i cavalli viene restituita al cinema, a un amore prima di tutto paterno, anche se le sue imprese come fantino hanno intatta la loro grandiosità così come le opere di Géricault, che per quanto riproducano un movimento falsato del galoppo, per quanto “sbagliate”, rimangono opere d’arte.
«Sallie Gardner al galoppo», nota anche come «Il cavallo in movimento», mi ricorda la dinamicità della sua vita e assieme quella ricerca costante di mezzi nuovi. Nello studio delle posizioni, in ogni fotogramma, rivedo la sua attività di stunt. Così come nel futurismo, nelle parole della Freda non si trovano mai accenni di malinconia e il suo interlocutore è costretto, almeno io lo sono stata, a smettere di parlare di passato, di premi vinti e corse all’ippodromo, per trovarsi a ragionare di futuro con lei, in particolar modo di quello dei cavalli che lasciano le corse e non sono ancora destinati alla pensione quanto a nuove possibilità ed è quello che fa con Relived Horses, la Onlus che si occupa di ricollocare PSI, e non solo, a nuove occupazioni.
“Nostalgici del futuro”, proprio come i futuristi, proprio come quelli che cercano una seconda chance.
Quando chiedo a Jacqueline Freda, cosa l’abbia spinta a creare questa associazione, con la fatica che comporta come la ricerca di fondi, la sua presenza negli ippodromi e tutto ciò che riguarda gli sforzi legati alla sua gestione, mi parla di un debito con questi cavalli in dieci anni di corse, come se fosse un fatto personale.
Se come diceva Lorenzo Viani: “l’arte è la capacità di far funzionare gli errori”, allora Relived Horses può essere considerato un capolavoro, ma credo che Jacqueline Freda si sbagli; sì anche lei.
La ricollocazione del cavallo, la frattura che si crea tra le corse e l’equitazione, non è un suo debito privato piuttosto un impegno che deve prendersi l’ippica e il mondo equestre in modo sistematico, ma quello di questa jockette è uno sbaglio in buonafede e come tutti gli errori commessi col cuore, e in particolar modo quelli fatti per l’amore per gli animali, è perdonabile.