I cavalli di San Marco, un viaggio di 800 anni
A MEMORIA D’UOMO, mai altri cavalli hanno viaggiato più lungamente nel tempo e nello spazio dei quattro destrieri che ornano da 800 anni la basilica di San Marco a Venezia. Giunsero da Bisanzio nel lontano 1204 portati dal doge Enrico Dandolo a ricordo della conquista dell’impero bizantino compiuta dalle armate dei crociati con l’aiuto della Serenissima. Stiamo parlando della IV crociata, voluta da Innocenzo III per liberare i luoghi santi e trasformata dalla Repubblica Veneziana in una campagna d’espansione politico-commerciale che si concluse, appunto, con il sacco di Bisanzio.
Sono stati molti, nell’arco dei secoli, a chiedersi le ragioni per le quali il vecchio Doge ( all’epoca della crociata aveva quasi 90 anni) abbia deciso di portare a Venezia, come trofeo di guerra, proprio quei quattro cavalli, parte di una quadriga originariamente dedicata al dio Sole. Certo il fascino della cultura greco-romana può avere influito, ma molto probabilmente la vera ragione è stata un’altra, di natura più squisitamente politica. Fin dai tempi di Teodosio (408-450), infatti, la quadriga dorata era stata posta sulla torre d’entrata dell’ippodromo di Costantinopoli. Un luogo di fondamentale importanza non solo per la città, ma per la stessa stabilità dell’impero, in quanto rappresentava uno spazio di aggregazione popolare con funzioni molto simili a quelle dell’agorà greca o del foro romano. Insomma, anche se a noi oggi la cosa può apparire un po’ bizzarra, l’ippodromo, durante tutta la durata dell’impero romano d’oriente, rappresentava il cuore civile e politico della città. Il luogo dove venivano compiuti (oltre ovviamente alle corse delle bighe) atti sia politici che amministrativi, dove si sviluppavano crisi e ribellioni, dove gli imperatori stessi potevano venire eletti o detronizzati.
La cosa non è casuale. La forma della pista infatti e le modalità stesse attraverso le quali venivano fatte le corse, evocavano in scala ridotta i pianeti e, quindi, l’intero universo. Ovvio che la quadriga dorata, posta in posizione dominante, rappresentasse il Sole, ovvero, per traslazione, simbolica il potere imperiale e Dio che di quel potere era il garante. Tenendo conto di tutto ciò è possibile ipotizzare che la scelta operata da Enrico Dandolo di trasferire a Venezia proprio i cavalli della quadriga, avesse soprattutto una valenza politica: quella di attribuire alla città lagunare una sorta di valenza “imperiale”. Non a caso i quattro destrieri ( probabilmente di epoca ellenistica, se non addirittura, secondo studi recenti, fusi in Grecia nella bottega di Lisippo) vennero posti, dopo una breve sosta nei locali dell’Arsenale, sulla facciata della basilica di San Marco in posizione dominante rispetto alla piazza dove si svolgevano le cerimonie politiche e religiose più significative.
I CAVALLI DI SAN MARCO hanno costituito sempre tappa obbligata per chiunque passasse per Venezia. E, qualche volta, capitava che i ‘chiunque’ non fossero esattamente dei “signor nessuno”. Petrarca, tanto per dirne uno. Il poeta, arrivato a Venezia nel 1364 in occasione dei festeggiamenti per la sottomissione di Candia, rimase folgorato dalla potenza di quella rappresentazione scultorea. Che, uno immagina, resterà lì in eterno, tipo Colosseo, Partenone, Templi di Agrigento eccetera, a testimonianza della grandezza della Regina dei mari. Ma le cose non vanno così. Nel senso che Napoleone, nel 1797, con il Trattato di Campoformio, se li impacchetta e se li porta via. Forse non è il caso di scomodare la pensosa teoria dei corsi e ricorsi storici, però viene da pensare: se Dandolo l’aveva fatto con Bisanzio, perché Napoleone non avrebbe dovuto farlo con Venezia? In fondo la pratica del saccheggio, della depredazione, del tabula rasa è stata sempre la ciliegina che i vincitori hanno messo sulla torta di ogni conquista. E noi, uomini e donne figli del ‘900, non abbiamo il diritto di scandalizzarci perché abbiamo visto di peggio. Il bombardamento di Dresda nel 1945, per esempio. Assieme a decine e decine di migliaia di vittime, gli alleati hanno spazzato via in poche ore la città simbolo dell’umanesimo barocco. Perché? Per puro e semplice terrorismo. Si potrà replicare: ma quella era guerra aperta e dichiarata! Controreplica: appunto!
Qualcosa di più recente? Servito: Afghanistan 2001. I talebani bombardano le monumentali statue di Buddha scolpite nella roccia a Bamiyan. Risalivano al terzo secolo dopo Cristo. Uno sfregio sulla faccia dell’umanità.
Al confronto Dandolo e Napoleone si sono comportati da mecenati benefattori dell’umanità.
BISOGNA aspettare il 1815 e il Congresso di Vienna, per vedere tornare i cavalli di San Marco al loro posto. E da allora nessuno li ha più toccati fino 1977, quando le autorità cittadine decisero, saggiamente, di sottrarli alla corrosione del tempo e delle intemperie, restaurarli e proteggerli riparandoli nei locali del Museo di San Marco. Al loro posto sono state messe delle copie perfette, che nulla però tolgono alla suggestione della loro maestà e nulla tolgono all’alone di leggenda che li circonda. Si dice, infatti, che nelle notti cupe di tempesta, quando i venti fanno increspare le acque della laguna, i fantasmi dei cavalli di San Marco corrano alla gran carriera per la piazza in cerca dei loro favolosi occhi di rubino scomparsi o, più verosimilmente, trafugati, durante il loro trasferimento in Francia alla fine del ‘700.
Naturalmente, la copia e l’originale non sono la stessa cosa. Però su un punto possiamo essere d’accordo: se l’idea di arte contiene in sé il fascino della sublimazione, il patrimonio artistico ne è la trasmutazione in materia. Che, in quanto tale, va curata, tutelata e conservata. Perché le forme che questa materia ha assunto nel corso dei millenni costituiscono il tratto peculiare di una memoria di sé che è l’unica difesa che l’uomo può opporre alla sua stessa distruttività.
La memoria, qualche volta, e davvero curiosa. Può prendere le mosse da origini le più improbabili. Persino da un ippodromo dell’antichità.