Corso di formazione "al sangue"
Un corso di aggiornamento professionale per i giornalisti con firme illustri, organizzato e offerto gratuitamente da una storica istituzione scolastica. Il titolo, “Sicurezza alimentare e innovazione”. “Il corso evidenzia quali sono le fake news sulla carne di cavallo”, si legge, tra l’altro, nell’agenda. Vivaddio, era ora! Tutti devono sapere.
Inizia così una mattinata di interventi su nutrizione, sostenibilità, tecnologia, salute, le direttive e gli accordi internazionali. Relatori blasonati, professori, medici, biologi e ricercatori, rimandi ai rapporti dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) e della Commissione europea. Fin qui tutto bene, molto bene. Uno di quei rari corsi che vale la pena seguire, ricco di informazioni utili per scrivere con cognizione.
Come collocare, dunque, in questo elevato contesto, un’autopromozione? E non già a favore di un ente di ricerca, un ospedale o una fondazione, bensì di un’azienda privata dalla secolare tradizione nella macellazione equina, invitata a esporre le proprie "best practice". Che, ovviamente, parla di sé e per sé, dei suoi (e solo dei suoi) laboratori di controllo, della sua (e solo della sua) collaborazione con università. Possibile, mi chiedo, che una marca sia veicolata a un pubblico sensibile – coloro che di mestiere (in)formano l’opinione pubblica – come momento formativo? Lo stesso l’onesto relatore sottolinea più volte che sta parlando solo per conto della propria azienda. Scorrono infatti slide con le foto del titolare (a cavallo, «perché lui li ama davvero»...), le sedi operative, la distribuzione. Mancava solo l’offerta speciale del giorno. Poi un minimale cenno su Dpa e non-Dpa, un grafico sui consumi e una citazione sul cadmio, incomprensibili ai più. Nessuna fake news, solo uno spaccato frammentario drammaticamente di parte.
Provoco: «Dopo tutti gli interventi precedenti sulla sicurezza in tavola, che cosa può dire sulla tracciabilità della filiera?».
Risposta: «La legge non la richiede. Ma noi facciamo controlli severi e ci approvvigioniamo da fornitori selezionati».
In Polonia? In Argentina?
Domando: «Ma lei ha mai visto uno dei centri di raccolta di cavalli nell’Est europeo?».
Risposta: «No».
Io sì.
Quindi i consumatori si dovrebbero fidare di un commerciante di cavalli (morti, per di più)? Senza mettere in dubbio la parola di alcuno, in ambito di sicurezza alimentare la “fiducia” è un concetto ben poco scientifico. Quale unità di misura si applica per misurarla?
«La carne di cavallo è sana e fa bene anche ai malati e ai bambini – declama, tagliando corto, la moderatice – mentre si leggono tante fake news».
Ovvero? Se meno del 15 per cento dei disgraziati proviene da “allevamenti da carne” (per carità, non che questi meritino il mattatoio), da dove arrivano tutti gli altri? Che cosa hanno mangiato? Perché non c’è l’etichetta parlante? Perché tra i dati Istat e quelli MinSal 2017 c’è una difformità di oltre 20mila capi? Dati alla mano, si potrebbe continuare a lungo. Insomma, quali sarebbero le fake news sulle quali è stata promessa la verità? Non è dato sapere.
Fin qui senza sfiorare l’aspetto etico. Ovvero il fulcro di ogni civiltà, la nostra più profonda essenza, il principio fondante. Per moltissimi, compresa chi scrive, mangiare il cavallo ha una valenza morale non tacitabile che va ben oltre la pur fondamentale sicurezza alimentare. È un tradimento spregevole, il patto interspecifico arcaico violato con l’inganno. Impensabile, incomprensibile, inaccettabile, immorale. La nostra visione, peraltro in rapida espansione, merita più rispetto anche in ambito professionale. Visto che l’aggiornamento è obbligo di legge, che sia completo e super partes.
Quanto a molti dei colleghi presenti, non disturbateli. Stanno impastando biscotti con un’avvenente mugnaia.