Cavallo amico mio, ottimo libro a quattro mani
LA CONFUSIONE è d’obbligo, anche nella migliore delle fiere, e RomaCavalli non fa eccezione. Dando per scontata la quantità dell’offerta, è tuttavia piacevole soffermarsi sulla qualità, in questo caso del libro uscito per i tipi di Equitare e presentato in occasione della kermesse capitolina. Un libro a quattro mani, per quella che la prefazione definisce una “Antologia di Spoon River equina”, e oltre che un libro un “oggetto d’arte”, fatto com’è di testi poetici e illustrazioni.
Cavalli di inchiostro e acquerelli, quelli di Cavallo amico mio: lo firmano Daniela e Maria Nives Manara, sorelle d’arte e artiste a loro volta, che in una collaborazione telematica tra il Veneto e l’Umbria hanno scovato lungo la storia e la leggenda cavalli (e altri equidi) più o meno illustri e dato loro voce per raccontarsi e raccontare i loro “umani”.
Nella “cavallinità” che tutti i personaggi del volume condividono, tanti i toni e le storie: il cavallo di Attila e quello di Lady Godiva, ma anche Romeo, mandato al macello dagli eredi dell’ortolano che lo impiegava per andare al mercato e, nel ricordo del grande Ribot, il suo sconosciuto compagno di scuderia Magistris.
Sullo sfondo, le vicende umane: la guerra, la gloria, le gare, viste con gli occhi degli animali, perdono di senso, si sgonfiano, e i grandi uomini tornano umani: Napoleone (ri)diventa un “culo imperiale”, per non parlare di Attila, che “ringhiava, mai che dormisse un poco, forse non digeriva” e allora “quando morì scappai… Adesso basta! –ho detto - Andatevi a ammazzare”.
Pietà è quella che il cavallo Rêve mostra per Giovanna d’Arco, “piccola, magra, una bambina con gli occhi spiritati”, mentre è ancora Ribot a ricordare le domande degli uomini: “Chissà cosa si dicono i campioni… Cose lontane, ricordi che si fiutano nel vento. Son cose nostre, pensieri di cavalli”.
Ad alto tasso emotivo la presentazione romana, con ricordi personali intrecciati a riflessioni culturali, e tasso di gradimento bulgaro per l’iniziativa editoriale: certamente merito del pathos che le autrici hanno saputo trasmettere ma anche, ci piace pensare, dell’aumentata attenzione verso il cavallo interlocutore prima che “strumento” tra le mani e le gambe degli umani.