Vienna, la Scuola Spagnola va sottratta al...mercato
Privatizzare un pezzo di Storia? Idea, prima che pessima, senza capo né coda. Consegnare al mercato una istituzione che è cultura in sé e che di sé irradia l’Europa e tante parti del mondo? Oltre tutto riconosciuta patrimonio dell’umanità? Di peggio non si può immaginare.
Si dirà: è il solito, stantio estremismo parolaio di chi da sempre si agita a vuoto impicciandosi inutilmente di tutto. Dunque, posizioni da seppellire nell’ultimo sottoscala del più insignificante degli archivi.
E però: se a porre la questione fosse… una schiera di cavalli? E, magari, cavalli Lipizzani? Lipizzani proprio nel senso di quelli della Scuola di Equitazione Spagnola, quella scuola, cioè, che dalla fine del ‘500 è pietra angolare di storia e cultura piazzata al centro di Vienna? Non è una allegoria e neanche uno scherzo. Le cose stanno proprio così, tant’è che un giornale come il ‘Corriere della sera’ (31-10-2021) ne dà conto con un titolo che se non è da prima pagina, poco ci manca: “L’accademia equestre sull’orlo del fallimento. L’Austria sotto choc”.
Insomma, che è successo? E’ successo quello che non può non accadere quando si riconosce alla "mano invisibile del mercato" la assoluta libertà, e dunque l’arbitrio, di innalzare e schiacciare con la stessa indifferente disinvoltura.
Vent’anni fa, qualche ‘Chicago Boys’ in salsa viennese, emulo di quel Milton Friedman che teorizzò lo speciale ben servito al Cile di Salvador Allende, partorisce con furore creativo la grande pensata: gli Asburgo sono finiti da un bel pezzo e lo Stato, come unico azionista della Scuola, ha fatto il suo tempo. E’ ora di togliersi il vecchio da dosso. Questa è l’epoca del libero mercato: cogliere le opportunità dove ci sono, inventarle dove non ci sono. Ottimizzazione, produttività, profitti. Queste le nuove parole d’ordine. Valgono per tutto. Quindi anche per il nostro prodotto. Il mercato già c’è, aspetta solo di essere colto. Basta allungare una mano per prenderselo. Cosa vuol dire? Tanti turisti e la gran massa di appassionati. Ecco cosa vuol dire. I biglietti degli spettacoli andranno via come il pane. In casa e in trasferta.
Per un po' va bene. Poi, mercato traditore, le cose si ingolfano: gli incassi cominciano a non coprire le spese. Più passa il tempo più è duro andare avanti: ma indovinate per chi?
In una situazione come questa si fa fronte, da che mondo è mondo, sempre allo stesso modo: si intensifica lo sfruttamento del lavoro. In questo caso, quello dei cavalli, che vengono costretti a fare uno spettacolo dopo l’altro, anche più volte al giorno, senza tempi di recupero e con tanti saluti al loro benessere. Ad accorgersene è, pensate un po', non qualche associazione animalista, o qualche appassionato di cavalli particolarmente attento, ma addirittura la Corte dei Conti austriaca la quale, dopo aver registrato lo stato deficitario dei bilanci, mette giustappunto nero su bianco che “la situazione economica ha spinto i gestori a moltiplicare sempre più gli spettacoli, sfruttando i cavalli oltre il lecito e in forme che non erano a loro adatte. Il tutto senza offrire periodi di riposo sufficienti”.
Vedremo come andrà a finire: se dovremo dire addio ad una istituzione centenaria e alla sapiente eleganza di quei cavalli, oppure se assisteremo ad uno dei modi in cui uno Stato moderno può dimostrare capacità e la responsabilità nel riappropriarsi, in controtendenza alle piatte uniformità della globalizzazione, di pezzi della propria Storia.