Tantalo, Pelope e l'origine dei giochi olimpici
CAPITA, a volte, che tra genitori e figli le cose non girino per il verso giusto. Se poi si arriva anche a mettersi le mani addosso, vuol dire che va proprio di schifo. Ma quando un padre si mette in testa di far strozzare il figlio per offrirlo in sacrificio agli dei, altro che ‘complesso di Laio’, (il quale, per inciso, in quanto padre di Edipo, avrà pur diritto ad un posto, anche di seconda fila, nella storia della psicoanalisi)! Altro che gioco delle parti fra Eros e Tanathos! Roba da manicomio criminale, altro che! Ed è proprio quello che capita al giovane Pelope che, ritrovandosi per padre un invasato come Tantalo, ad un certo punto passa il più brutto quarto d’ora della sua vita. Cotto a mestiere e aromatizzato a puntino, viene servito come piatto forte per la tavolata che quello sciagurato di genitore imbandisce in onore degli dei. Ora, dati i tempi, e data anche una certa disinvoltura di rapporto fra uomini e dei, la cosa sarebbe pure normale. Ma c’è un punto che fa di questo sacrificio una sporca faccenda: a Tantalo gli dei non avevano chiesto proprio niente. Nessun sacrificio, nessun atto di fede. Niente di niente.
Non gli è capitato, tanto per dire, quello che, invece, è successo al povero Abramo, il quale non ha potuto fare altro che chinare la testa di fronte ad un ordine tuonato direttamente dall’alto. Poi, per fortuna, il Padreterno si è accontentato dell’atto di obbedienza e tutto è finito bene.
TORNANDO A NOI, Tantalo, ruffiano e antropofago, il sacrificio del figlio se l’era, dunque, completamente inventato, per ingraziarsi gli dei a prescindere. Ma, della serie anche gli dei hanno un’anima, stavolta accade qualcosa di portentoso: Pelope viene resuscitato.
Infatti, al contrario di tante altre volte, di fronte a tanto ignobile, e non richiesto, spettacolo, a Zeus viene il ghiribizzo di commuoversi per questa giovane vita inutilmente sacrificata.
Non capita tutti i giorni che il Gran Vecchio ceda alla debolezza di un sentimento umano. Forse sarà l’età. Forse sarà che Athena, sua figlia prediletta e unica in tutto l’Olimpo ad avere la testa sulle spalle, gli fa presente che va bene tutto, ma pure a tutto c’è un limite. Sarà dio solo sa per quale altro motivo, fatto sta che Pelope, per grazia del medesimo, riapre gli occhi.
Tantalo ci rimane male. I commensali, che già avevano messo in moto le ganasce, peggio. Nessuno fiata. Però gli si legge in faccia a tutti la delusione: se non ci si può fidare più neanche degli dei, chissà dove andremo a finire di questo passo.
Non si sa se Pelope, tornato tra i vivi, si sia guardato intorno in cerca di quel fetente di padre per regolare i conti. Comunque sia, c’era qualcosa di più urgente da fare, subito: ringraziare Zeus per avergli ridato la vita. E lo fece organizzando una grande festa, allietata da giochi nei quali chiunque poteva misurare la propria forza e la propria abilità in gare di corsa, lotta e pugilato.
Va detto, per completezza di informazione, che la commozione di Zeus in realtà celava un progetto. Era necessario che Pelope tornasse in vita perché a lui spettava il compito di generare, con la moglie Ippodamia, due figli, Tieste ed Atreo. Che, per la verità, non vissero in fraterna letizia. Fra loro, infatti, si insinuò una turpe vicenda di corna. Tieste, cioè, non ce la fece a resistere alla tentazione di insidiare Europa, la moglie di Atreo. Il quale, naturalmente, si vendicò secondo le migliori tradizioni di famiglia: organizzò un pranzo con le carni del figli del fratello e glieli fece mangiare.
Di Tieste si persero le tracce, mentre Atreo, restò nella leggenda vivendo di luce riflessa dei figli: Agamennone, re di Micene, e Menelao, re di Sparta.
Senza Pelope, quindi, non ci sarebbe stata la grande epopea della guerra di Troia, e quindi i giganti della storia greca, e quindi Enea, e quindi Roma, e quindi eccetera eccetera.
Ma, allo stesso tempo, Pelope aveva anche un’altra missione, quella di segnare l’inizio di un’altra grandezza greca: le Olimpiadi.
I GIOCHI ORGANIZZATI per la sua rinascita devono essere stati davvero un evento straordinario, se la loro eco si diffonde in tutte le zone di quella terra che proprio da lui prenderà il nome: Peloponneso.
Una eco che travalica non solo lo spazio, ma anche il tempo. Mille anni più tardi, Ifito, il conquistatore dell’Elide, riprenderà la tradizione dei giochi.
Anche lui, per ringraziare il cielo che gli ha consentito di diventare signore e padrone di questa importante regione, organizza ad Olimpia delle celebrazioni. In realtà il rito consiste in una sola gara: la corsa dei 192,27 metri. E’ la misura dello stadio della città e si dice che corrisponda alla lunghezza di 600 orme di Ercole.
E’ l’anno 776 avanti Cristo e questa prima Olimpiade viene vinta da un certo Coroibo.
Il gioco piace. Piace a Ifito, che l’ha voluto; piace agli atleti, che hanno partecipato; piace, soprattutto, al pubblico, che affluisce in massa. E sarà proprio il pubblico a decretarne il successo. Per questo le Olimpiadi saranno un evento che ricorrerà anche nei secoli a venire con risonanza sempre maggiore. Edizione dopo edizione si arricchiranno di altre discipline come le corse dei carri e dei cavalli, il lancio del disco e del giavellotto, il salto in alto e in lungo e, infine, il pentathlon.
Le gare sono aperte anche ai re, ai principi e a tutti quelli che hanno responsabilità pubbliche.
Con la loro diretta partecipazione, le Olimpiadi cominciano ad assumere anche importanti significati politici. I giorni delle gare costituiscono occasione di incontri durante i quali conoscersi di persona, parlare, scambiare idee, opinioni, valutare proposte e soluzioni che possono agevolare la convivenza fra i popoli della Grecia. Non a caso le Olimpiadi diventano anche il periodo in cui guerre e ostilità vengono sospese. E’ la ‘Sacra Tregua’ che nessuno osa violare.
I vincitori delle gare diventano eroi. Saranno i letterati a cantarne le gesta. Le Olimpiadi diventano, dunque, anche un evento centrale nella storia della cultura greca. E’ con le Olimpiadi che Erodoto incontra la fama di storico e scrittore
E però i giochi olimpici hanno un limite: le donne non possono partecipare. Neanche come spettatrici. Perché gli atleti gareggiano nudi. Ma figuriamoci se il divieto basta a frenare l’intraprendenza delle donne. Alla fine la spuntano. Sarà Cinisca, la sorella di Agesilao, re di Sparta, la prima donna a partecipare, nel 376 avanti Cristo, alle gare. E vince pure. Con il carro a quattro cavalli taglia per prima il traguardo.
CON CINISCA cambiano le regole: le donne si sono conquistate il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Come, pure, cambiano ancora una volta con la XXXVII° edizione, quando per la prima volta vengono accettati anche i fanciulli, cui vengono riservate, però, solo le gare di atletica.
La novità non è di poco conto, perché con l’entrata in pista dei bambini, in ogni città della Grecia si aprono, a spese dello Stato, scuole di educazione sportiva. Nello sport in funzione delle Olimpiadi si cominciano ad investire quote importanti delle ricchezze nazionali. Le Olimpiadi, dunque, cominciano ad assumere anche rilevanza economica.
Ne hanno fatta di strada, le Olimpiadi, da quel 776 avanti Cristo. E altrettanta ne avrebbero fatta se, ad un certo punto, non fossero state vietate d’imperio
Il fatto è che al Cristianesimo non piacciono. Non piace l’esposizione di quei corpi, non piace la bellezza scultorea di fisici, non piace soprattutto il modo con cui i popoli si ritrovano a condividere gli stessi entusiasmi e gli stessi valori di un competere che si libera, almeno per la durata dei giochi, della maledizione di scannarsi. Non piace l’idea che si possa trionfare senza sottomettere.
Il vescovo di Milano, Ambrogio, dice che i giochi olimpici perpetuano l’inciviltà pagana. Perciò non possono essere più tollerati. Vanno smantellati, aboliti. Dimenticati per sempre. L’imperatore Teodosio obbedisce e impone il divieto.
E’ il 396 dopo Cristo. Sulle Olimpiadi, festa dei popoli di ogni terra, scende un buio che durerà più di mille e cinquecento anni.