Roberto Marchesini, la zooantropologia e lo studio della relazione uomo-animale
Come promesso nell’articolo di apertura di questa rubrica, eccoci ad affrontare – e approfondire – il tema della relazione uomo-animale, in particolare la relazione uomo-cane. Stavolta con il prezioso contributo di un grandissimo esperto, che dedica la sua vita e i suoi studi alla “zooantropologia”.
Roberto Marchesini, nato a Bologna nel 1959, è filosofo, etologo e zooantropologo di fama internazionale. Direttore del “Centro studi filosofia postumanista” e della “Scuola di interazione uomo-animale” (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della filosofia, dell’etologia e della bioetica. Ricordiamone alcune: Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza (2002), Il tramonto dell’uomo. La prospettiva postumanista (2009), Fondamenti di zooantropologia (2014), Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione (2014), Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale (2016), Tecnosfera. Proiezioni per un futuro postumano (2017), Emancipazione dell'animalità (2017), Etologia cognitiva (2018). Dirige la rivista Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo (Apeiron Editoria) e tiene regolarmente conferenze in tutto il mondo sul rapporto tra l’uomo, le altre specie e la tecnologia.
Questa lunga intervista parte rivolgendo al professor Marchesini la domanda con cui ho concluso il primo articolo della rubrica e che ripropongo: perché, oggi, avere un cane?
Professore vorrei partire con una domanda apparentemente molto semplice. Perché l’uomo “moderno” sceglie, oggi, di avere una relazione con un animale e, in particolare, di condividere la propria vita con un cane?
L’essere umano è sempre rimasto affascinato dalle altre specie. Gran parte della cultura, almeno come la vede la zooantropologia, deriva proprio da questa ispirazione che nasce nell’essere umano nel momento in cui incontra un altro animale: osservando, ad esempio, il volo degli uccelli, le virtù dell’orso o del lupo, l’essere umano sogna di poter raggiungere nuove dimensioni esistenziali e quindi dà luogo a quei comportamenti culturali che sono la musica, la danza, la moda, le prassi religiose e tecnologiche. L’essere umano è profondamente affascinato dal mondo animale e lo vediamo nelle diverse culture tradizionali, dove ciò è particolarmente eclatante; nello stesso tempo lo vediamo nei bambini: non c’è nulla che li attragga come l’animale, ed è per questo i giocattoli e i cartoni animati hanno forme animali, poiché il bambino sente nell’animale l’attore e il compagno di crescita. Nel Paleolitico abbiamo assistito a un periodo in cui ricca è stata la relazione con l’animalità, l’uomo viveva in una dimensione non controllata, e tale relazione è continuata nel Neolitico e anche successivamente, nello sviluppo delle grandi civiltà fino ad arrivare a noi, a quelle culture rurali, dove le persone vivevano a stretto contatto con gli animali. Il grande passaggio è avvenuto nell’ultimo secolo, quando gli esseri umani hanno iniziato a vivere nelle città di dimensioni sempre più metropolitane, con diminuzione del verde e aumento di strade per i mezzi di trasporto, dove gli spazi si sono contratti e dove però questo desiderio di incontrare gli animali è rimasto nell’intimo. Questa è forse la società che più ha nostalgia di questo rapporto; al contempo non conosce gli animali e quindi spesso li interpreta in maniera “liquida”, dà loro una conformazione a seconda delle aspettative, dei bisogni: c’è chi ha bisogno di dare cure parentali e che quindi vede il cane come un figlio; altri hanno bisogno di conferme affettive; altri vogliono un compagno di avventure e di giochi. Quindi oggi questa non conoscenza degli animali e al contempo la nostalgia di tale dimensione hanno fatto sì che spesso gli animali d’affezione, cane e gatto, vengano svuotati delle loro caratteristiche.
Che cos’è la zooantropologia?
La zooantropologia è la disciplina che studia principalmente come l’essere umano è stato cambiato dalla relazione con gli altri animali; quindi, più che una disciplina che studia l’interazione o la relazione con gli animali, la zooantropologia parte da un assunto secondo il quale l’incontro con gli altri animali è stato il grande volano della cultura umana: questo è il suo principio di base. L’interesse della zooantropologia è cercare di comprendere come gli animali ci cambiano, ci ispirano, hanno modificato e modificano tutt’oggi il nostro regime di vita, caratteristica che prende il nome di referenza. L’animale è inteso come referente, come un’entità a cui mi rivolgo per ricevere suggerimenti, annunciazioni, ispirazioni, epifanie. La zooantropologia studia questo, nell’idea che gli animali siano stati molto importanti nella storia dell’uomo e che non sia possibile conoscere l’essere umano facendo solo una ricognizione interna, cioè cercando di capire tutte le dimensioni culturali dell’umano pensando che sia frutto esclusivo dell’umano. Per esempio, la danza non è invenzione proveniente dalla mente umana, ma viene spiegata attraverso l’osservazione di un particolare rituale di corteggiamento di un animale che l’uomo ha ammirato, sognato e imitato.
Questa rivista parla di cavalli, con uno spazio, questo, dedicato ai cani e agli “amici di scuderia”. Che relazione può esserci – e quale importanza può avere –fra uomo, cane e cavallo, che sono, peraltro, i più antichi compagni di vita?
Quella col cavallo è una relazione affascinante che in qualche modo porta le persone al di fuori di quella che è la loro quotidianità, soprattutto dall’aspetto domestico. Apparentemente il cavallo sembra controllato da noi, ma in realtà non gli si può dare una qualunque forma, non lo si può portare in casa come invece facciamo con cani e gatti e, in qualche modo, controllarlo. È un animale che ti chiede di sentirlo, di capirlo, perché ha caratteristiche molto forti, è un animale molto nevrile e al contempo animale preda, per cui è molto sensibile. La relazione con questa specie è una relazione che ci porta al di fuori della nostra routine: ho notato che tutte le persone che hanno consuetudine con i cavalli hanno una dimensione loro, entrano cioè in un mondo che è diverso dalla quotidianità. Col cane, le persone possono continuare a fare la loro vita e continuare a pensarsi allo stesso modo, poiché è il cane a entrare in casa e a dover adattarsi al regime del mondo umano, della nostra consuetudine e quotidianità. Col cavallo la persona deve entrare nel suo mondo. Quello che mi dispiace è che spesso interpretiamo questa relazione in maniera chiusa: pensiamo che l’unica possibilità di relazione possibile sia montare a cavallo e non pensiamo, più semplicemente, che sia un animale stupendo da incontrare e che ci potrebbe portare nel suo mondo anche attraverso altre dimensioni.
“Non c’è attività umana che non sia stata plasmata e riformulata attraverso i mille talenti del cane”, sono sue parole, che testimoniano che il cane appunto non è stato un semplice “compagno” dell’uomo né semplice “spettatore” della sua evoluzione… qual è stato dunque il suo ruolo?
Una delle tappe principali del Paleolitico è stata l’incontro tra l’essere umano e il lupo, incontro legato al fatto che uomini e lupi avevano caratteristiche comuni sotto il profilo del generalismo: si tratta infatti di individui che mangiano di tutto e non sono specialisti nell’alimentazione come, per esempio, i felidi. Sono in poche parole degli spazzini che si nutrono di quello che trovano; possono anche essere predatori sì – e in questo più il lupo che l’uomo – ma in linea di massima si trovano a competere sullo stesso territorio. Quindi abbiamo due competitori che hanno profili sociali molto simili: la struttura del branco, della squadra con valenze cooperative molto forti e in questo senso uomini e lupi si somigliano molto di più che uomini e scimpanzé. La capacità cooperativa dei lupi è molto simile a quella degli umani: dunque, è vero che queste due specie si sono affrontate, sono entrate in competizione e in conflitto, ma avevano anche caratteristiche che potevano trovare delle convergenze proprio per questa somiglianza nel comportamento sociale, somiglianza analogica, ovviamente, quindi non per eredità comune (somiglianza omologica), ma per convergenza adattativa. Il fatto interessante è che uomo e lupo sono complementari anche dal punto di vista dell’impatto sul mondo, dal punto di vista percettivo, nel modo di operare: è come se mettendo insieme uomini e lupi si ottenesse qualcosa in più per le loro caratteristiche complementari, un po’ come mettendo insieme idrogeno e ossigeno si ottiene l’acqua, cioè si ottengono effetti emergenziali, che prima non esistevano. Quando l’essere umano ha incontrato il lupo ed è iniziato il processo di domesticazione reciproca di queste due specie è nato qualcos’altro. Qualcosa che normalmente non viene tenuta in considerazione perché noi esseri umani pecchiamo di arroganza e pensiamo che tutto quello che abbiamo fatto sia stato grazie alle nostre uniche forze, lottando contro una natura ostile. In realtà, non è stato assolutamente così, siamo stati fortemente aiutati in questo processo e un grande aiuto ce l’ha dato proprio il lupo-cane, cambiando il nostro orizzonte d’impatto sul mondo, aumentando le nostre capacità adattative in maniera esponenziale e in un certo senso cambiando anche i nostri usi e costumi. È cambiato anche il nostro modo di vivere: pensiamo al fatto che un cane introiettato nella comunità è un animale che dà la sicurezza nel dormire, che significa dormire di più, sognare di più, avere dei cuccioli che crescono con un regime di sonno maggiore e migliore, è migliorata a sua volta anche la dieta alimentare che è diventata più varia e ricca. È cambiato il regime comportamentale: vivendo costantemente accanto al lupo, i bambini costruivano una nuova identità che non era più umana ma oserei dire licantropica, ha allargato in modo incredibile il suo orizzonte comportamentale e quindi ha modificato tutte quelle pressioni selettive che lo chiudevano in una nicchia di sviluppo che si è così ampliata tantissimo. Quindi il grosso del cambiamento è avvenuto nel Paleolitico, dopo di che nel Neolitico è stato solamente un portare a casa i frutti di un lavoro che era già stato seminato.
Affrontiamo, seppur in questa sede in breve, un argomento di cui si sente spesso parlare: per me il cane è come un figlio. Perché è sbagliato antropomorfizzare gli animali, il cane in particolare?
È sbagliato sicuramente applicare nel nostro rapporto con gli animali un antropomorfismo che definisco “banale”, cioè pensare che gli animali comunichino come noi, percepiscano il mondo come noi, abbiano i nostri stessi interessi: si tratta di atteggiamento sicuramente da evitare. Però esistono altri aspetti che normalmente vengono definiti antropomorfismo e che in realtà antropomorfismo non sono: se noi prendiamo in considerazione caratteristiche come l’amore materno, il piacere del gioco, le emozioni, si tratta di caratteri non peculiari dell’uomo, ma di tutti i mammiferi. Quando io riconosco nel cane determinati caratteri non sto attribuendogli caratteri umani, ma sto riconoscendo in lui quei caratteri condivisi, quei caratteri omologhi che abbiamo ereditato da progenitori comuni. Dunque, l’antropomorfismo è sbagliato poiché non riconosce le caratteristiche specie-specifiche e quindi toglie all’essere vivente la sua natura, i suoi bisogni, il suo modo di percepire, la sua estetica. Invece, sapendo che tutti gli esseri viventi sono collegati da progenitori comuni, esistono d’altro canto caratteri che noi abbiamo ricevuto in eredità e che quindi condividiamo con tutti i mammiferi: in tal caso, il riconoscimento di tali caratteri non è antropomorfismo. È comunque in generale assolutamente sbagliato pensare che un qualunque animale assomigli più a una macchina che a un essere umano: sottolineo sempre che anche l’animale più lontano da noi, quale può essere una medusa, assomiglia più a un essere umano che a un orologio.
Un altro tema “spinoso”: molti ritengono che chiedere al cane una forma di “lavoro” sia uno sfruttamento ingiusto, se non addirittura un maltrattamento, lei che ne pensa?
Innanzitutto va rilevato che al cane piace fare attività con noi. Molti pensano che l’inattività sia la condizione migliore, il comfort sia la cosa più bella e più auspicabile, che il welfare sia tutto ciò che gli animali desiderino dal mondo, ma non è così. Il piacere di riposare nasce nel momento in cui sono stanco, c’è un rapporto strettissimo tra comfort e azione. Io apprezzo situazioni confortevoli se ho vissuto e se sono stato in azione, se i miei muscoli si sono contratti, se il mio corpo ha potuto saltare, correre e fare attività. Il benessere è sicuramente legato ad aspetti di comfort e welfare, ma non dobbiamo dimenticare che benessere è innanzitutto possibilità di esprimere ciò che si è; quindi, per dare benessere a qualcuno, bisogna innanzitutto conoscere le sue caratteristiche etografiche, cioè di specie. Il cane è un animale operoso che ama fare attività; per lui, il legame è la partecipazione nell’attività. Potremmo dire che il cane risponde all’idea di Giorgio Gaber che “libertà è partecipazione”: il cane è libero quando può partecipare, quando può sentirsi parte di un gruppo che agisce e opera e fa un determinato tipo di attività. Tra due proprietari, uno che riempia il proprio cane di affetto e l’altro che gli consenta di fare attività, non ho dubbi nel dire che il cane sarà molto più legato a chi gli faccia fare attività. Ciò non significa che il cane non abbia bisogno di affetto, ma io dico sempre che l’affetto per il cane è come apparecchiare la tavola e il fare attività è l’atto di mangiare: non ha senso apparecchiare la tavola se poi non si mangia. Purtroppo, questo è ciò che molti fanno, apparecchiare grandi tavole per poi non presentare nulla da mangiare. Ovviamente, gli piace collaborare e non essere una specie di soldatino che deve ubbidire e vivere costanti frustrazioni o vessazioni; gli piace dare il suo contributo, mettere a disposizione del gruppo i propri talenti e caratteristiche. Mi trovo speso di fronte a questa schizofrenia: da un lato, chi non sviluppa questo regime collaborativo con il cane ma vuole solo comandarlo e impartire ordini; dall’altro lato, i pietisti amorevoli convinti che basti trattare il cane come “l’amore di mamma”. Tra queste due vie, si dovrebbe trovare una terza strada del tutto diversa: accettare e sviluppare la collaborazione del cane partendo dai suoi propri talenti, perché il punto fondamentale è che ogni cane è diverso, quindi una certa attività può essere gradita a un cane e fonte di stress per un altro. Occorre pertanto partire sempre dai talenti specifici di quel certo cane per impostare una relazione in cui ci siano, sì, affettività, amicizia e autonomia dove si intenda per collaborazione il fare qualcosa insieme in cui ciascuno esprima ciò che è in grado di dare.
Come definirebbe una “buona relazione” tra uomo e animale?
Per rispondere a questa domanda, considererei non tanto il cane, quanto il gatto, poiché è con il gatto che vengono fuori i grandi problemi. Il gatto ci piace dal punto di vista estetico, ci piace come è fatto, ci piacciono il suo muso, gli occhi globosi, questo suo muoversi con un certo stile, siamo affascinati dai felidi. Poi, però, vorremmo che non uccidesse le lucertole, che non marcasse in casa, che non saltasse sui mobili, vorremmo il gatto ma non la felinità. Questo è il grande problema della nostra relazione con gli animali: siamo abituati a guardarli come se fossero delle immagini perché siamo abituati a vederli nei documentari o nell’interpretazione fumettistica e non siamo più abituati a pensare che dentro a quella forma ci siano un contenuto, delle caratteristiche specifiche, che un gatto sia un gatto e non solo abbia la forma del gatto. Una buona relazione è data dall’accettare le caratteristiche interne, essere affascinati dalla diversità, cercare la peculiarità, amare questa pluralità di relazioni e referenze.
L’importanza educativa del rapporto con la natura è stato uno dei temi dell’ultimo convegno organizzato all’interno delle GIS (Giornate Internazionali di Studio) proprio dall’Istituto che lei dirige (SIUA), può spiegarci l’importanza di questa relazione e perché è fondamentale recuperarla?
Perché per i bambini è fondamentale il rapporto con la diversità. Se parliamo di immaginario, di fantasia, non c’è niente che abbia una potenza immaginifica, che sia una fonte di modelli così ampia quale la natura. Tutto ciò che noi facciamo come esseri umani è omologato sull’essere umano. Invece la natura ci sorprende costantemente, è fonte di meraviglia come diceva già Aristotele, e da questo meravigliarci e stupirci nasce il pensiero. La relazione con la natura aiuta a uscire da quello che è il narcisismo, la chiusura in sé, fa apprezzare la diversità ma fa anche capire che l’altro ha una prospettiva diversa dalla propria; rende possibile accettare questa diversità ed estroversione, capacità spesso perduta in una società in cui narcisismo e individualismo fan da padrone. Ci abituiamo a dialogare con la diversità, a capire che l’altro è diverso da noi, a sviluppare empatia. Al contempo, comprendiamo che l’altro è un’entità che sente, prova emozioni, sentimenti, desideri. Quindi il rapporto con la natura insegna il rispetto dell’altro, l’aiuto dell’altro, aspetti fondamentali quando parliamo di pro-socialità. Poi c’è tutto l’aspetto della cura: vivere con un animale rafforza una delle propensioni più belle dell’essere umano, il prendersi cura. La diligenza, la dedizione, l’organizzazione, la responsabilità sono tutte conseguenze dell’aver rafforzato la capacità di prendersi cura del mondo. Quindi per un bambino si tratta di un rapporto centrale. Senza questo tipo di relazione, il bambino va in carenza, cosa che oggi purtroppo succede spesso.
Le chiederei in particolare una riflessione sul ruolo del gioco per il bambino da una parte, per il cane dall’altro.
Il gioco è una delle caratteristiche degli animali che hanno cure parentali. Gli animali hanno bisogno di mangiare, prendere possesso del territorio, difendersi, ecc. per cui possiedono tendenze mentali, motivazioni (che possono essere predatoria, competitiva, collaborativa, ecc.), propensioni a compiere determinati comportamenti perché questi assolvono determinati bisogni. In natura, un gatto rincorre perché rincorrendo mangia. Ora, quando i nidiacei o i cuccioli sono in quella fase dell’età evolutiva in cui hanno i genitori che pensano a loro assolvendo i loro bisogni, ecco che questi piccoli si trovano ad avere un esubero motivazionale: per esempio, il rincorrere è presente nel gattino anche quando il mangiare è assicurato da qualcun altro. Questo esubero viene speso nel gioco, che nasce dunque fortemente collegato alle cure parentali e a questa situazione di esubero. Il gioco è utile perché attraverso il gioco il cucciolo prova, allarga il suo orizzonte esperienziale: il gioco è dunque il volano dell’esperienza. Con il gioco io esperisco il mio corpo, i sensi, la relazione sociale e tutto ciò che è orizzonte esperienziale si amplifica nel momento in cui io posso giocare. Il gioco è centrale nella vita di un bambino e di un cucciolo. Possiamo dire che quanto più un animale può permettersi di giocare anche in età adulta, tanto maggiore sarà la sua capacità di adattamento alle frustrazioni: un animale che si mantiene giovane è più adattabile ai cambiamenti. Tutti quegli animali che godono di strutture sociali complesse sono animali che possono continuare a mantenere una condizione ludica anche in età adulta. Di conseguenza, in questi animali si nota una serie di comportamenti, come l’utilizzo o l’invenzione di strumenti, la produzione quindi di cultura, che sono frutto diretto del gioco.
Come funziona la scuola che lei ha fondato e dirige (SIUA - Scuola di Interazione Uomo-Animale), e che ha compiuto nel 2017 i suoi “primi” vent’anni? Quali sono le proposte formative?
Siua, Istituto di Formazione Zooantropologica, nasce a Bologna nel 1997. Fin dal suo esordio, Siua si propone di sensibilizzare sul valore della relazione con la natura, attraverso progetti didattici per le scuole e attraverso la formazione di professionisti in grado di favorire tale incontro. I valori di Siua possono essere riassunti nel concetto di empatia: riconoscere l’importanza delle caratteristiche di specie, cercare una consonanza accogliendo i bisogni e le istanze, rimarcare il principio del rispetto. Le principali aree di attività di SIUA sono l’area educativo-didattica, dove la relazione con l’animale permette di migliorare le opportunità formative e disciplinari del bambino; l’area assistenziale-coterapeutica (IAA) dove si utilizza la relazione per favorire processi di benessere-assistenza e realizzare servizi di coadiuvazione terapeutica; l’area di consulenza di pet-ownership, sia nella consulenza preadottiva che nell’intervento di integrazione familiare del pet; l’area di educazione della coppia di pet-ownership attraverso specifici indirizzi di pedagogia animale; l’area di socio-affiliazione, o integrazione comunitaria, dell’animale e della realizzazione di struttura di convivenza familiare. Siua ha una sede centrale, Naturama, in provincia di Bologna ed è presente su tutto il territorio nazionale con sedi e referenti regionali. Maggiori info si possono trovare sul sito: www.siua.it
Lei ha scritto molti libri, sia di natura tecnico-saggistica che narrativa, e collabora con riviste e quotidiani, è insomma un autore molto prolifico. Crede che la scrittura possa essere un valido strumento per aprire un percorso di sensibilizzazione e di presa di coscienza sui temi dei suoi studi e del suo insegnamento?
Credo che al di là della sensibilizzazione, sia importante insegnare ai bambini fin da piccoli a leggere perché la lettura è fondamentale nella vita di ciascuno di noi, permette di ricavare spazi propri, di parlare con grandi personaggi che non ci sono più, di dialogare con Lucrezio o Kant. Purtroppo leggiamo poco e non trasmettiamo il piacere di leggere ai bambini. Questo è collegato al fatto che anche nella scuola non si parla di studio come divertimento, piacere, gioia, ma spesso diventa un compito. Si tratta di una trasmissione sbagliata di qualcosa di meraviglioso che, quando manca, porta a un depauperamento della persona. Penso che dovremmo stare meno sui social media e molto di più con un libro in mano!
Ha qualche progetto o evento a cui sta lavorando in questo momento e che le sta particolarmente a cuore?
Il mio progetto fondamentale è spiegare bene cosa s’intenda per etologia cognitiva, dare un’immagine chiara di cosa significhi oggi considerare l’animale come un’entità che desidera, pensa, riflette e non è la macchina descritta da Cartesio. È un impegno difficile e complesso, perché si tratta di andare a fondo e mettere in discussione alcune cornici mentali che abbiamo tutti perché siamo cresciuti nell’idea che il nostro modo di essere sia un allontanarsi dall’animalità e non un esprimere la nostra animalità.
Per la realizzazione di questa intervista ringrazio di cuore, oltre al professor Marchesini per la sua disponibilità, Eleonora Adorni – ufficio relazioni con l’estero e segreteria di Roberto Marchesini.