Ricordo di un giornalista di "razza"
Rudy l'ho sempre pensato come un grande cronista della tradizione statunitense: visiera sulla testa, mezze maniche di satin nero, sferragliante macchina da scrivere. Oggi, nell'apprendere la sua scomparsa, ho capito il perché di quell'immagine, un po' "archeologica", visto che lui ha lavorato anche con attualissimi computer. Perché Rudy aveva in sé - nella sua meravigliosa capoccia da giornalista di razza - tutto quel che serviva ad affrontare ogni tipo di articolo. Non c'era bisogno di archivio, bastava la sua memoria. Non c'era bisogno di correttore di bozze perché non gli scappava un refuso neanche a pagarlo oro. Non c'era bisogno di mettergli fretta perché il pezzo veniva scritto in tempo reale. E con il taglio giusto. Rudy è stato la personificazione stessa della grandezza di un mestiere affrontato solo con la qualità dell' intelligenza e della passione. Un sentimento entusiasta ma lucido, rispettoso degli eventi e del lettore.
Ho conosciuto Rudy ai mondiali di equitazione del '90, a Roma. E subito mi ha dato prova della generosità con cui affrontava la vita, trattava i colleghi, agevolava le altrui esigenze professionali. Con una bonomia burbera mi ha facilitato i rapporti con il mondo del trotto, che non conoscevo affatto. Ha rivisto un mio pezzo per "Capital" in cui raccontavo quali erano i capitali che Varenne aveva fruttato al suo proprietario. E potrei continuare ancora per molto. Gli esempi non si contano e non riguardano solo la mia persona.
Fosse stato per me l'avrei costretto a tenere dei corsi, destinati a chi oggi vuole affrontare un mestiere che si è fatto scivoloso, alienante, frustrante. Per costruire nella mente dei futuri professionisti alcuni "fondamentali", alcuni pilastri imprescindibili, cui è impossibile rinunciare. Ora che se ne è andato resta il ricordo del suo indimenticabile modo di fare il giornalista. Anche io, come tanti, gli mando un abbraccio pieno di commozione: Ciao, Rudy.