Ricordando Danilo Mainardi
Due persone sono al lavoro per scrivere questo articolo: la giornalista, e l'amica. La giornalista pretende compostezza nell'obbedire alle cinque regole sacre di ogni pezzo "chi, come, dove, quando e perché". L'amica vorrebbe soltanto ricordare una persona davvero unica, davvero straordinaria. Perché Danilo (pronunciatelo con l'accento sulla a: lui ci teneva molto) Mainardi è stato un grande scienziato, ma anche una meravigliosa persona, che ho avuto il privilegio di frequentare fin dagli anni Settanta.
In onore al mestiere di giornalista ricorderò che Mainardi è stato il padre dell'etologia italiana, professore emerito a Ca' Foscari, autore di innumerevoli titoli ( compresa una deliziosa serie di gialli) e ci ha insegnato a conoscere l'intelligenza animale, sia nelle specie più rare e lontane da noi sia negli animali domestici. Il suo ultimo cane, un golden retriever di nome Orso, per la verità viziatissimo - "che gusto c'è ad avere un cane se non lo si vizia un po'" - è comparso con lui in molti dei risvolti di copertina dei suoi volumi: in onore alle inclinazioni della sua razza Orso si buttava ogni giorno nei canali di Venezia. E Danilo lasciava fare.
Ecco che a parlare non è più la giornalista ma l'amica. Lo sono diventata fermandolo su un treno, per chiedergli notizie del suo lavoro: era la metà degli anni Settanta e lui teneva in mano la prima copia di un libro intitolato "Intervista sull'etologia" edito da Laterza, che finì per regalarmi.
Da allora non ci siamo più persi di vista: venne ad un piccolo festival che dirigevo a parlare del rossore degli animali ( ebbene sì, arrossiscono anche loro), venne al Pavarotti international a presentare - assieme a Mauro Checcoli allora presidente della FISE - il mio primo romanzo sui cavalli "L'ostacolo dei sogni". Un'estate, in Maremma, incontrai un gruppo di suoi studenti: avevo paura di scoprire che il bravo divulgatore, il conosciuto scienziato, fosse un professore temuto o non amato. Mi sbagliavo di grosso: Danilo è stato per i suoi studenti un fortissimo punto di riferimento scientifico e umano. Il brano di una sua lettera riportata su Fb dall'etologo Francesco De Giorgio, suo ex studente, poche righe in cui gli raccomanda di "portarsi una giacca più pesante, che qui a Parma fa freddo" raccontano la sua capacità di attenzione al prossimo.
Mainardi sapeva di cavalli, anche se i suoi campi d'interesse erano assai più vasti. Fu lui a indirizzarmi dal paleontologo Augusto Azzaroli, che a Firenze ha ricostruito al museo di Paleontologia la storia evoluzionistica del cavallo. La decisione di occuparsi del mondo animale scaturì in una "stalletta" della fattoria dove era sfollato da bambino assieme alla famiglia; lì il piccolo Danilo si sistemava in una mangiatoia, buono e fermo: il cavallo che veniva attaccato al carretto, un piccolo asino, delle galline che razzolavano lì attorno con il passare del tempo finivano per dimenticarsi della sua presenza, e ricominciavano a interagire fra loro con naturalezza. Da quelle lunghe ore di osservazione scaturì il destino del futuro etologo. Mainardi raccontava di essere stato un liceale svogliato e di aver compreso quanto fosse interessante lo studio solo all'università: aveva scelto la facoltà di scienze naturali. Si è poi laureato con una tesi sui colombi viaggiatori, diventando fra l'altro un appassionato colombiere. I "triganini" e i "torraioli" sono al centro di un suo giallo etologico intitolato "L'acchiappacolombi". E una quindicina d'anni fa, quando già insegnava a Venezia, sua moglie Patrizia mi raccontò che si era messo dieci chili di libri sui colombi nello zaino per portarli in facoltà e fotocopiare per me alcune pagine che potevano essermi utili per un mio romanzo ambientato nel '600 in cui i piccioni viaggiatori (decidemmo che dovessero essere i bagadesi, a quel tempo in gran voga) avevano un ruolo importante.
L'attenzione di Mainardi era - come accade agli scienziati che guardano sempre un passo avanti a noi - rivolta non solo agli animali ma all'ambiente. E dunque all'ecologia oltre che all'etologia. Eccolo dunque a Venezia al dipartimento di scienze ambientali. Il suo ultimo libro si intitola "La città degli animali" e racconta come molte specie animali abbiano trovato un nuovo habitat nelle nostre metropoli. E aveva segnalato anche l'esperienza del carcere di Bollate, dove sotto la guida di Claudio Villa i cavalli e i detenuti avevano trovato salvezza gli uni negli altri.
Spesso ospite del museo di scienze naturali di Roma - dove nelle sue conferenze il mio cagnolino Golia passeggiava fra le sedie degli spettatori - Mainardi riusciva a incantare l'auditorio anche raccontando le reazioni di una lumaca di fronte a un ostacolo, e descrivendo la sua capacità di imparare, se messa per la seconda volta di fronte al medesimo problema. Dalla sua aveva la sua abilità affabulatoria e anche una bella capacità di disegnare. Per Bollati Boringhieri era uscito un piccolo libro con dei suoi disegni davvero belli. Ed è una fortuna che il Corriere della Sera abbia già da tempo in programma di offrire molti dei suoi titoli per ricordare ai lettori la sua bella scrittura.
Scienziato, ma anche umanista: Mainardi era un uomo di ottime letture letterarie, sapeva a memoria certe canzoni di Paolo Conte, era insomma una persona capace di uno sguardo a tutto tondo sul mondo. Un mondo che lui avrebbe voluto meno segnato da un cultura antropocentrica, tanto distruttiva. Ricordo ancora un suo articolo intitolato "Un paese senza", riguardo a un Italia ormai quasi senza rondini. Mainardi - che è stato presidente della Lipu - non ci ha soltanto raccontato il mondo animale. Ci ha anche messo in guardia sul grave impoverimento della biodiversità. Sta a noi, tutti noi, raccogliere l'eredità del suo pensiero. Riposa in pace, professore.