Re Artù, il Vescovo di Catania e il cavallo sparito.
Catania-Anno Domini 1195
Il Vescovo di Catania è venuto improvvisamente a mancare. Gli ha preso un colpo e ci è rimasto secco stecchito all’istante. Il luttuoso evento è stato accolto dai catanesi come la rivelazione della infinita bontà celeste. Le spontanee manifestazioni di giubilo fra la popolazione sono state pesantemente represse dallo speciale corpo di guardia voluto espressamente, e personalmente, dall’imperatore svevo Enrico VI per il controllo dell’ordine pubblico. Siamo entrati in possesso della deposizione resa agli inquirenti da un involontario protagonista della misteriosa vicenda. Se non fossimo più che certi della affidabilità della nostra fonte, diremmo che i retroscena hanno dell’incredibile. Ma lasciamo la parola al documento, che pubblichiamo integralmente. Anche in questa circostanza ci preme rimarcare che la scelta di pubblicare o meno un verbale secretato dalla autorità giudiziaria, è stata ampiamente dibattuta dalla nostra redazione. Siamo consapevoli delle responsabilità che ne implica la divulgazione. Ma restiamo fermi nella nostra convinzione: il diritto alla informazione deve sempre coincidere con il dovere di diffondere la verità. Ecco il testo, così come ci è giunto.
“ Il mio nome è Agorenzio Scudiero e sono stato al servizio di Sua Eminenza il Vescovo fin dal giorno del suo insediamento in città. So che non sta bene parlare male dei morti, però Sua Maestà l’Imperatore Enrico VI lo deve aver scelto proprio fra il fior fiore di quella carrettata di carogne che si ritrova a corte. In città lo odiavano tutti. E a me mi voleva addirittura bruciare vivo perché diceva che ero falso e bugiardo. Anzi, peggio: uno stregone. Adesso vi dico come sono andate le cose.
Un mese fa mi dà l’ordine di portare a passeggio il suo cavallo preferito. Io lo porto, come faccio sempre, sulle pendici dell’Etna. E che mi ti va a combinare quella bestia assatanata peggio del padrone? Comincia a sgroppare come se avesse davanti e dietro mille draghi tutti assieme. Scalcia. Impenna. Orecchie stirate indietro e occhi fuori dall’orbita, nitrisce come a lanciare l’allarme per il diluvio universale. Si butta in un galoppo forsennato, ventre a terra e mi va a finire dentro il cratere del vulcano. E adesso come mi metto? Che gli dico a Sua Eminenza? Quello mi spella vivo. Non ci crederà mai che il suo amato cavallo si sia buttato da solo lì dentro. Dirà che sono stato io. Che magari me lo sono venduto. O che magari l’ho addirittura ammazzato io, apposta per dargli il dolore più grande della sua vita. Quello mi squarta. E che altro potevo fare con questi pensieri in testa, se non disperarmi? Mentre sto lì a piangermi tutte le lacrime del mondo per il mio disgraziato destino, ecco che, all’improvviso, compare dal niente un vecchio, che mi fa: “ Vieni con me. Io so dov’è il cavallo del vescovo. Non gli è successo niente. Sta bene. Adesso ti ci porto”. Lo seguo. Dopo aver attraversato lunghi cunicoli sotterranei stretti e storti, larghi e dritti, pieni di fumo, che scendevano giù, fin dentro le viscere della montagna infuocata, mi ritrovo in una sala grande, bellissima e tutta sbrilluccicante. In mezzo c’era un trono tutto d’oro e sopra ci stava seduto Re Artù. Il Re mi guarda e, indicando un angolo di quella stanza grandissima, mi dice: “Eccolo là il cavallo del vescovo”.
“Adesso che l’hai visto con i tuoi occhi, torna dal vescovo. Gli dirai che sei stato al cospetto di Re Artù, che Re Artù sa della sua prepotenza e delle sue crudeltà. Gli dirai che Dio lo punirà presto, molto presto. E per punirlo Dio userà me, Re Artù, e la mia spada. E gli dirai, infine, che se rivuole il suo cavallo deve venire a prenderselo di persona, qui. Dovrà scendere fin qui a piedi e da solo. Ha quattordici giorni di tempo. Se non verrà, al quindicesimo morirà”.
Queste precise parole mi ha detto Re Artù e esattamente così, ne una di più ne una di meno, le ho riferite al vescovo, quando sono rientrato. Figuratevi quello. Prima mi ha preso per pazzo, poi per imbroglione e, alla fine, per ladro. Io lo sapevo che avrebbe reagito così. Con la faccia livida e contratta di rabbia, aveva già impugnato la spada per scannarmi sul posto, quando ad un certo punto si immobilizza come preso da una paralisi. Abbassa la lama e ordina ai soldati di portarmi in prigione. Ogni giorno mi mandava a prelevare dalla cella, mi faceva condurre davanti a lui e tornava a chiedermi del suo cavallo e di cosa era veramente successo. Io gli dicevo di nuovo di Re Artù, che altro potevo dirgli? Quello mi diceva che mandava ogni giorno i soldati a cercare il cavallo sull’Etna e sparivano anche loro. Che per colpa mia non solo aveva perso il suo adorato cavallo, ma stava perdendo anche la sua guarnigione. Di tutti quelli che mandava a battere l’Etna palmo a palmo, non rientrava mai nessuno. Questo per quattordici giorni di fila. Il quindicesimo giorno, me prostrato in ginocchio davanti lui, mi si piazza davanti e mi riversa dall’alto una colata di ira furibonda. “Ho capito chi sei. Tu sei uno stregone e come uno stregone morirai adesso, subito: bruciato vivo”. Non fa in tempo a finire di dire “vivo” che lo vedo congestionarsi, ansimare, contorcersi. Strabuzza gli occhi e con un singulto strozzato in gola, crolla a terra come un sacco vuoto. Così sono andate le cose. E questo è tutto”.
Naturalmente questa è la versione del diretto interessato. Pare che gli inquirenti abbiano qualche difficoltà ad accoglierla. Ma è anche vero che prove da portare a sostegno di una tesi diversa da quella sostenuta da Agorenzio Scudiero, allo stato delle indagini, non ce ne sono. In questa misteriosa vicenda sono solo due le cose certe. La prima è che Re Artù è stato di parola. Non a caso si dice ‘parola di re’. La seconda è che per i catanesi è finito il tempo di sopportare la crudeltà di un vescovo che Dio ha voluto richiamare a sé. Proprio come si fa con i pezzi difettosi o venuti male.