Omaggio a Maria Sacco per la sua vita
fatta di cavalli al galoppo
“Ogni corsa è un bagno d’aria gelata che ti gonfia la casacca di seta e ti riempie di brividi la schiena. Per me sono comunque questi i momenti più belli: i momenti … d’anima.” (M.S.)
FORSE LE PERSONE prendono, in qualche modo, le sembianze delle loro passioni. E lei, come l’ho conosciuta io, aveva quegli occhi buoni e saggi che si scorgono, talvolta, in alcuni cavalli dallo sguardo profondo, che sembra che abbiano mondi infiniti da raccontare a chi voglia ascoltarli.
Io Maria Sacco credo di averla vista quasi ogni mattina, tranne la domenica, negli ultimi 10 anni sulle piste di allenamento di San Siro. Una donna piccola, fisicamente forte, con i capelli biondo cenere sempre legati in un’alta coda di cavallo. Il viso un filo segnato di chi ha vissuto una sana vita all’aria aperta, i lineamenti decisi ma buoni; caldi occhi marroni che conoscevano il vento e che guizzavano attenti e decisi, gli occhi ardenti di chi ha una passione e la persegue con convinzione. Quella R rotolante che addolciva una voce dal tono sempre deciso. Credo di non averla mai vista senza i suoi pantaloni da equitazione blu e gli stivaletti, fedeli compagni anche quando non montava i suoi cavalli ma li seguiva soltanto in veste di allenatrice, come a dire: bisogna sempre esser pronti per qualunque evenienza.
La prima volta che ho visto Maria Sacco è stato nel 2002, e credo che sia stata la prima donna che ho avuto modo di vedere a San Siro. Mi si raccontò sommariamente chi fosse. Ricordo che era impegnata, già allora, nella difesa dell’ippodromo: e l’avevo conosciuta e ascoltata proprio mentre parlava, col fervore di tutta la sua anima, di questi argomenti. Al tempo non ne conoscevo i trascorsi, ma ricordo come la mia passione per l’ippica si fosse trovata pienamente rispecchiata e come avesse sentito risuonare un’eco di profonda corrispondenza nelle parole di quella donna che sentivo difendere con tutto il suo cuore, con tutta la sua grinta, il proprio ippodromo che era diventato anche un po’ il mio: sì perché, quando la magia di San Siro, dei purosangue, delle corse ti prende, basta un attimo ed è fatta. E ricordo che il mio pensiero era stato che, con una persona del genere a lottare, avrei avuto anche io il mio tempo per imparare a montare i cavalli da corsa: eravamo tutti in una botte di ferro. E la mia passione era salva, per la prima volta avrebbe avuto la possibilità di esprimersi e crescere, di prendere corpo, là dove si esprimeva anche la sua.
NON SO QUALE sia stata esattamente la prima volta che Maria avesse visto un cavallo; quale il primo momento in cui il suo sguardo si era posato su uno di quegli animali che l’avrebbero accompagnata nella vita fino al suo ultimo respiro: sta di fatto che questa passione, dopo averla catturata, non l’ha mai più abbandonata. E Maria, in un’intervista delle tante che le erano state fatte agli esordi della sua carriera, aveva dichiarato che la prima volta che era salita su un cavallo, aveva compreso che il suo destino era legato a questi animali.
La sua era una vera fiamma, che la seguiva ovunque andasse. Nata a Spinetta Marengo il 7 settembre 1958, dopo aver conosciuto i cavalli, a 12 anni, si era lanciata nell’equitazione, seguita dal generale Cacciandra, praticandola anche durante gli anni del liceo che frequentava a Firenze. La sua strada, però, si era casualmente incrociata con i purosangue da corsa di San Siro intorno ai 15 anni, e il richiamo si era fatto forte al punto da indurla a tornare al nord, per poter montare a cavallo a San Siro mentre concludeva il liceo.
Non ho mai chiesto a Maria cosa San Siro rappresentasse per lei. Eppure, data la nostra passione comune, lo posso immaginare. Credo che l’ippodromo fosse per lei una seconda casa. Conosco bene il sacrificio di alzarsi ancora prima dell’alba per montare ogni mattina, con qualsiasi tempo; e so quanto tutto questo venga ampiamente ripagato: dallo spettacolo del sole che sorge, anche se, a volte, dietro le nubi o nascosto da una cortina di pioggia o dalla nebbia di Milano. Ripagato dal respiro caldo del cavallo che ti accoglie nel box, dal profumo dei finimenti di cuoio. Dal piacere nel respirare il profumo dell’animale che si mischia a quello di verde, di rugiada, di terra e fieno. La dolcezza e la nostalgia di rituali senza tempo, sempre uguali eppure ogni giorno con delle differenze fondamentali. La concentrazione nell’ascoltare il cavallo, il piacere di un corpo vivo e vibrante che ti presta qualcosa che non possiedi e che tu devi ascoltare, interpretare, comprendere e rispettare. A cui devi dare voce, aiutandolo a esprimere al massimo la propria forza.
Una Maria adolescente aveva preso la patente da amazzone, che consente di montare in corse per dilettanti. Aveva debuttato nell’ippodromo di Agnano, vincendo. Ma, naturalmente, le competizioni in gentlemen non le davano sufficiente soddisfazione. Aveva disputato circa 20 corse, riportando due sole vittorie e decidendo, nonostante la sua scelta non fosse troppo popolare in famiglia – ed era certamente una scelta inusuale - di diventare fantina. Aveva preso la patente da professionista nel 1977. Forse qualcuno credeva che si trattasse di una di quelle passioni di gioventù, che durano il tempo di un respiro, o di una stagione. Naturalmente non era stato così. Nonostante non avesse neanche 20 anni, il rinunciare alla vita mondana non le pesava, anzi: viveva la gioia del sacrificio per qualcosa in cui si crede: “se uno persegue un ideale, non è un sacrificio”, aveva detto una volta una giovanissima Maria in un’intervista.
ENTRARE NELLA SCUDERIA di Maria Sacco incuteva sempre una certa soggezione, come un timore reverenziale. Non era come andare in qualsiasi altra scuderia: era come entrare nel suo regno, in un luogo più intimo ancora della sua casa, era come trovarsi in una chiesa, era come entrare in un suo spazio privato, che meglio di qualsiasi altro esprimeva il suo Io, il suo intimo. La stessa collocazione della scuderia, distaccata dalle altre, la rendeva diversa. Tutto era ordinato, perché Maria allenatrice voleva che si lavorasse bene, con metodo e precisione. In compenso il suo ufficio era così caldo e pieno di cose da apparire quasi disordinato! La prima volta che Maria mi aveva invitata a entrare ricordo, come prima cosa, di essermi imbattuta nel suo amatissimo cane Tyson e poi di essermi persa a osservare le pareti, ricoperte di foto di una donna più giovane e quasi sempre col casco in testa e in tenuta da fantino. Una donna che non ho fatto in tempo a conoscere in quel ruolo.
Io ho conosciuto Maria che allenava, abituata a fare tutto da sola e a prendere in mano le situazioni; Maria che richiedeva concentrazione agli uomini di scuderia e rispetto per il cavallo. Maria seria e attenta, Maria dai grandi sorrisi, con quegli occhi che cercavano, a volte, di nasconderli per tornare alla consueta serietà professionale. Maria alla quale ho sempre dato del Lei, non per mantenere le distanze ma per dimostrarle il mio Rispetto. A non conoscerla incuteva un certo timore, che i suoi modi burberi e spicci non potevano che accentuare. In realtà, quando lei si accorgeva che alla sua passione corrispondeva la tua passione, si rivelava persona disponibile e generosissima, calda e accogliente.
Le prime due corse che aveva disputato erano state due vittorie. Le prime di una lunga serie, in anni di carriera. Aveva debuttato a Varese con Sinding, mentre la seconda corsa si era svolta a San Siro con Bruzo, nel premio Valganna. Nelle interviste rilasciate negli anni le ha sempre ricordate, e ha sempre ricordato il debutto come una delle fasi più belle della sua professione. Nella sua carriera aveva montato per Alduino Botti, per Aiello e montava in corsa i cavalli della scuderia Notre-Dame des Epines, di proprietà di un sacerdote, senza guadagnare nulla ma per fare beneficienza. Maria ci teneva a far bene e ci teneva a imparare: con l’umiltà di chi sa che c’è sempre qualcosa da imparare in ogni situazione.
Caparbia e combattiva, era riuscita a farsi strada in un ambiente maschile in cui lavorano con estrema difficoltà le persone che non hanno alle spalle una famiglia di tradizione ippica. Eppure era entrata a pieno titolo nell’ambiente, anche nonostante il suo essere donna, facendosi benvolere. Neanche un’esperienza come quella del rapimento era riuscita a tenerla lontana da San Siro, a dimostrazione di quanto fossero importanti i cavalli per lei: “Io, i cavalli, credo di averli nel sangue. Qualcosa difficile da spiegare, soprattutto difficile da capire. Sento che la mia personalità si completa soltanto se ho davanti a me un cavallo; è un rapporto bellissimo, l’unico che conti oggi nella mia vita”.
DOPO UNA CARRIERA di fantina di tutto rispetto, nel 1990 aveva preso la patente di allenatore. Come le persone più sagge, aveva compreso quanto nella vita sia talvolta necessario e importante reinventarsi un ruolo nel proprio ambito, con la consapevolezza che c’è un momento per tutto. Anche come allenatrice, aveva mantenuto la fama che aveva come fantina: di professionista seria e competente. Era sempre amata e stimata da tutti. E chiunque avesse delle lamentele da fare sulla gestione dell’ippodromo si rivolgeva a lei, ben sapendo che avrebbe preso a cuore il problema con il consueto entusiasmo, con l’energia del primo giorno, quell’energia che non sprecava in cose inutili, che non la interessavano e che spendeva interamente per la propria passione, perché sapeva mettere a frutto tutto quello che aveva imparato nella sua esperienza in corsa e con i cavalli: aspettare, temporeggiare, osservare, valutare e lottare fino in fondo.
Ho scelto di concludere questo mio scritto dedicato a Maria con un’ultima citazione delle sue parole, prima delle quali desidero però condividere un pensiero che mi ha reso più facile accettare la sua perdita e la sua assenza e che trovo che sia in qualche modo espresso nelle sue stesse parole: Maria ha vissuto e se ne è andata nel modo che le piaceva, vivendo la sua passione, respirando l’odore e con esso tutte le emozioni che i suoi cavalli potevano darle. E io non posso fare a meno di pensare che questa sia una cosa bellissima, e non posso fare a meno di sperare che sia di stimolo a tutti noi, appassionati di cavalli, per vivere la nostra fiamma. Come potrebbe dire lei, non sprechiamo le nostre energie in cose inutili o nei rimpianti: viviamo le nostre passioni, portandola con noi e facendo tesoro del suo esempio.
COME MI E' ACCADUTO con tutte le principali passioni della mia vita (i giochi, i panorami marini, i film polizieschi, le lingue, la moda, i dolci, la musica, il pianoforte, il tango, la maionese, le collezioni di ogni cosa, il vivere essenzialmente per essere me stessa, gli animali, i cavalli), m’innamorai per sempre delle corse dei cavalli molto precocemente: dall’età di quindici anni. Credo di non essermi più appassionata veramente a qualcosa, da allora. L'odore dell’erba bagnata, il tamburellare felpato del galoppo sul prato, la gagliardìa dei cavalli, il guizzo combattivo sulla retta finale, l’emozione, l’incertezza di quel che stava accadendo allora e mai più: mi stregarono definitivamente. Per coloro che lottano e godono contando i minuti e i secondi: non il lungo respiro inerte ma il tempo di un sospiro.
VALERIA FOGLINO