Modernità dell'ippica? Sì, una crisi senza fine
IN UN BELLISSIMO ARTICOLO sull’inconcepibile situazione vesuviana dei mesi scorsi, il 31 maggio sul “Corriere” Angelo Panebianco ha affermato: “E’ stupefacente che la classe borghese della città non abbia ancora sentito su di sé tutto il peso morale dell’emergenza spazzatura e non si sia data da fare di conseguenza, per dire basta alle manovre dilatorie e alle ‘rivolte’ suscitate ad arte. Se una reazione ci fosse stata, il clima e il vento sarebbero già cambiati e Napoli potrebbe guardare con più fiducia al futuro”.
Riflettendo sull’emergenza ippica che ci affligge addirittura da anni, e sostituendo alla borghesia partenopea la classe operativa del nostro settore (allevatori, proprietari, ippodromi e professionisti di galoppo e trotto) se ne ricava lo stesso accorato stupore che l’ottimo Panebianco prova constatandone l’inerzia pigra (quasi rassegnata) per annoverarla tra le cause primarie dell’involuzione che stiamo tutti vivendo e subendo.
Negli ultimi 9 anni l’ippica ha perso alcune diecine di migliaia di “utenti”. Perché? Finora nessuno ha provato a rispondere pubblicamente e col dovuto impegno a tale (scomodo) interrogativo. Sarebbe bastato invece l’esercizio di un po’ di analisi logica. E una piccola dose in più di coraggio.
Infatti il motivo c’è. Sotto tutti i cieli, oggi il ritmo e lo stesso senso della vita hanno subìto ovunque una feroce accelerazione, che molti amano definire cambiamento, altri addirittura lo chiamano “progresso”. E’ mutato alla radice l’umano porsi di fronte alle cose.
Era perciò inevitabile che anche il mondo dei cavalli pagasse il suo tributo alla “modernità”, in particolare in un’Italia in cui l’ippica beneficiò – sino alla “svolta” normativa di fine anni Novanta – di un occhio di riguardo da parte della comunità politica, in cambio di capolavori che si chiamano Nearco e Ribot, Tornese, Delfo e Varenne, più tanti altri quasi come loro.
Non è che oggi l’Italia abbia smesso di produrre campioni a quattro zampe con la “C” maiuscola. Anzi! Per dirla tutta, oggi ne mandiamo in giro per il mondo molti di più di una volta. Solo che alla gente ora i purosangue e i trottatori interessano meno, perché qualcuno – sopra le nostre teste – ha deciso che nell’assillata economia del Paese è giunto il tempo di “distrarsi” verso altre attività ludiche, meno costose dei cavalli.
E noi scioccamente e sconsideratamente abbiamo fatto il gioco di questi potenti detrattori della “civiltà ippica” italiana, mostrando prima indifferenza, poi una raccapricciante impreparazione a fronteggiare con la necessaria energia lo smontaggio, cadenzato e strategico, del nostro patrimonio. Ultimamente, le famose Categorie si sono mosse, è vero, ma a tempo ormai scaduto, quando già avevano l’acqua alla gola…
Guardando ai giornali del settore, i “nemici” che hanno più duramente boicottato i loro antichi livelli di diffusione sono stati soprattutto 3: i “murali” che abitualmente tappezzano le pareti delle agenzie ippiche, la tv delle corse pure ampiamente fruibile nei betting-shop, e Internet. Oggi a chi può più interessare lo “studio” delle performance o la lettura sui giornali di risultati e cronache mentre tutto è già reperibile in tempo reale nei siti specializzati e sui canali di Internet?
Di conseguenza, per risalire la china del suo mercato, la stampa ippica dovrebbe ormai prendere atto dei cambiamenti avvenuti e aggiornare robustamente la propria offerta: previsioni tecniche sulle corse (i famosi “pronostici”) sempre più attente e azzeccate, un’informazione giornalistica più concreta (cioè più centrata sugli interessi del lettore italiano), più chiara (nel senso della semplicità), più spigliata ed originale, anche più ricca di “imprevedibile”, e forte della necessaria capacità di “sintesi” che non è facile da realizzare perché richiede mestiere, ma che contribuirebbe molto al riaffezionare il pubblico al nostro prodotto e all’ippica stessa.
Tra tutto il resto, sarebbe finalmente da intraprendere un discorso senza più compassionevole complicità sull’Unire, perché si possa capire dove stanno la fonte e l’ingigantirsi dello “sfascio”. Le pesanti intromissioni della politica hanno trasformato l’Ente in una specie di casa di Ulisse, bivacco di proci che fanno a gara tra loro per riuscire a guadagnarsi le grazie di Penelope. L’Unire non può più permettersi di pagare i premi con indecente ritardo. Se le casse sono carenti l’Ente lo dica, soprattutto spieghi – senza più veli né pietismi - perché ci siamo ridotti in questo stato e smetta di promettere ciò che non è più in grado di mantenere. In un’economia sana, questa Unire sarebbe già da tempo in stato fallimentare, anticamera della sua messa in liquidazione.
E se la chiudessimo davvero, l’Unire? E se – sotto il controllo delle Finanze - i premi li mettessero in palio direttamente gli ippodromi, in base a ciò che ciascuno di essi produce? Ovvio che la gestione tecnica dell’attività sarebbe da riaffidare ad apposite strutture – ma snelle e poco costose!... – coordinate, ma solo coordinate, dall’Agricoltura.
Spesso oggi leggiamo che la qualità vale più della quantità.
Perfetto! Ma ad una sola condizione: che si abbia poi il coraggio di pretenderla a suon di fatti, la qualità.