Ma Netflix sa andare a cavallo?
Vorrei, tramite questa rubrica, spedire una supplica a Netflix, una delle piattaforme più potenti dell'intero globo audiovisivo: smettetela di proporre film su adolescenti e cavalli così goffi, insulsi e improbabili, che fanno del male alla qualità dei futuri spettatori, all'idea che un ragazzino può avere del rapporto con un cavallo, e - più in generale - alle aspettative che può offrirgli il mondo dello sport. Anzi, il mondo tout court. Questa volta parliamo di un film svedese intitolato "La rivincita di Klara", tratto da una serie di romanzi per adolescenti, scritti da Petra Norman.
La storia è quella, banalotta, di una ragazzina, figlia di genitori separati, che si trasferisce con la madre in un piccolo paese rurale, dove non riesce a legare con le compagne di scuola. Klara - di lei si tratta - ha patito la rissosa separazione dei genitori (il padre è distratto da una nuova moglie e un bambino piccolo, e la mamma di Klara non smette di rimproverarlo). Il trasferimento, che dovrebbe preludere a una nuova vita, a una consonanza fra madre e figlia, si declina nella solitudine. Nella scuola che Klara frequenta sono in molte a prendere lezioni di equitazione. Ma quella è una spesa che sua mamma non si può permettere e che suo padre non consente.
Il maneggio organizza una gara di cross a cui Klara sogna di partecipare (lei che non ha mai montato!) per prendersi una rivincita sulle smorfiosette che ha in classe. A consolarla c'è un coetaneo, vicino di casa, che le fa conoscere un cavallo, Star, abbandonato in un recito, a causa del suo malocarattere. Naturalmente Klara ci andrà d'accordissimo, lo monterà, farà la gara e arriverà addirittura seconda(gli sceneggiatori hanno avuto almeno il pudore di non farla vincere). Sottraendo così Star al macello, e riuscendo a far si che i suoi genitori abbiano un rapporto meno conflittuale.
Già nel novembre scorso avevo deprecato tanta faciloneria nel film (sempre su Netflix) "Rock my heart" e ora siamo da capo: anche la storia di Klara andrebbe vista con un adulto che sappia mettere in guardia i giovani spettatori a cui è destinato. Se penso a un film del lontanissimo 1944, intitolato "Gran Premio" con una Liz Taylor ancora bambina e Mikey Rooney appena più grande non posso che inchinarmi alla capacità di coniugare la dimensione favolistica con un racconto assolutamente verosimile, in cui i costi da pagare alla maturità, alla crescita, all'impegno di una preparazione sportiva, non sono ignorati o elusi, ma analizzati e attraversati.
E visto che stiamo parlando di Netflix, beviamo l'amaro calice fino in fondo e concludiamo queste note parlandovi di un breve recentissimo documentario (appena 23 minuti) intitolato "I miei eroi erano i cow boy" dove si tratteggia la figura di un addestratore di cavalli per il grande e piccolo schermo, Robin Wilthshire. Nato in Australia e poi emigrato negli Stati Uniti, Robin - ammaliato fin da ragazzino dai film western - diventa un apprezzato addestratore di cavalli per il cinema. Per tutta la durata del documentario lo sentiamo lodare il senso di libertà che danno questi animali in natura. Ma non lo vediamo mai ammettere che il cavallo-attore è quanto di più innaturale e costretto possa esistere. Un celeberrino addestratore francese di origine italiana, Mario Luraschi, ha affrontato questo tema nelle molte interviste che gli sono state fatte: "I miei cavalli hanno con me confidenza e fiducia, costruite in lunghi anni di consuetudini. Sanno che chiedo loro cose che non gli nuoceranno mai. E dunque sono capaci anche di buttarsi fra le fiamme". Robin Wilthshire non mostra una sola sequenza cinematografica realizzata con i suoi cavalli. Si limita a passeggiare per i prati della sua patria d'elezione, lo Wyoming, sfoggiando un paio di camperos rossi. Troppo poco per un buon documentario. Anche se targato Netflix.