Ma l'uomo di oggi rispetta davvero
l'atavico patto con i cavalli?
Caro Direttore, avere la ventura di poter osservare il mondo dei cavalli in Italia da un altro Paese aiuta (per quanto è concesso a noi umani) ad avere una visione delle cose più ampia e quindi- forse - più neutra. C’è una cosa che salta agli occhi spiluzzicando qua e là tra i giornali on line, e ovviamente su facebook, un livello di discussione sospesa tra vecchi principii (sottolineo vecchio e non tradizionale) e nuovi elementi di una modernità confusa.
Non voglio elevarmi al ruolo di “sapientona” anche perché so, per esperienza diretta, che con i cavalli non si finisce mai di imparare, ma vorrei utilizzare la sua testata per buttare là alcune riflessioni, forse provocatorie, che spero però possano dare adito ad un dibattito. Da tempo ho la sensazione che nel mio Paese manchi la consapevolezza di quanto, in questi ultimi anni, sia cambiato (sia in Italia che nel resto del mondo) il modo di approcciarsi al mondo animale e al loro benessere. Ciò che di vero ha portato a ciascuno di noi la conoscenza dei più recenti studi etologici viene spesso male utilizzato e contribuisce, mi duole dirlo, a trasformare la relazione con il cavallo in qualcosa che ricorda più Pavlov che Lorenz.
Quello che voglio dire è che se l’etologia ci racconta qualcosa, questo qualcosa riguarda la vita interiore dei cavalli: la loro capacità di provare emozioni, di soffrire, di avere bisogno di relazioni con i propri simili, di conoscere e scoprire l’ambiente in cui vivono… e potrei continuare all’infinito! Queste consapevolezze dovrebbero portarci a riflettere sul senso del nostro definirci, spesso presuntuosamente, “uomini di cavalli” ed aprirci ad una qualche riflessione critica sul nostro modo di interagire con questi nostri antichi compagni di strada.
La prima cosa sulla quale riflettere è che, al di là delle varie definizioni più o meno ipocrite, montare a cavallo, comunque lo si voglia fare, non ha niente di naturale… almeno per il cavallo! Non prendiamoci in giro e cerchiamo di usare questa consapevolezza come fonte di riflessione e di stimolo. Cosa dobbiamo dedurne? Che si debba smettere di fare equitazione? La mia personale risposta è no. Ritengo però che l’atto di salire in groppa ad un altro essere vivente vada fatto con umiltà e rispetto, nella consapevolezza che non è un nostro diritto, ma al limite una gentile concessione della quale dovremmo essere grati. E questo, in pratica, dovrebbe tradursi nello sforzo di migliorare sempre più il nostro assetto al fine di non pesare sulla struttura scheletrica del cavallo. Significa cominciare a riflettere su imboccature, su tipi di selle (quante non sono adeguate al cavallo che montiamo?), su vari attrezzi per ottenete flessioni del collo molto poco naturali (qui ci vuole il termine "naturali") e mi fermo qui, per non parlare di metodi di addestramento violenti, barbari e comunque ormai superati non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello delle nostre attuali conoscenze equestri.
Alcuni etologi ipotizzano che il cavallo instauri con l’uomo una relazione di tipo simbiotico, in altre parole una modalità di rapporto all’interno del quale entrambi i partner dovrebbero trarre dei reciproci vantaggi. Ora se è vero che uno dei due “poli” del binomio di vantaggi ne ha tratti a iosa, quello su cui dovremmo interrogarci è quali siano i vantaggi dell’altro. Certo, la specie equina è sopravvissuta (a quale prezzo da parte dei singoli individui è forse meglio sorvolare), ma oggi che il cavallo si avvia sempre di più ad essere percepito (soprattutto da chi non lo frequenta) come un animale d’affezione, oggi forse è giunto il momento di chiedersi cosa possiamo fare per onorare il patto che da millenni la nostra specie ha stipulato con i cavalli. Certo noi forniamo loro vitto e alloggio (di alloggio pure troppo, verrebbe da dire, visto il numero spropositato di ore che passano in box), ma questo è sufficiente?
Insomma la sopravvivenza è una cosa, la qualità della vita un’altra e a me pare che sia su questo secondo aspetto che dovremmo tutti interrogarci. La noia, la solitudine, la mancanza di relazioni sociali con i propri congeneri, la scarsa possibilità di fare movimento in libertà, l’impossibilità di sviluppare la curiosità e il bisogno di conoscenza dell’ambiente, per non parlare delle richieste “sportive” spesso eccessive…o fatte nel momento sbagliato, vi pare che siano indicatori di una qualità di vita accettabile? Certo non tutti i cavalli vivono così...
Il punto non è questo. Il punto è che quello che attualmente è affidato alla buona volontà, alla sensibilità e all’intelligenza di alcuni proprietari, allevatori o cavalieri dovrebbe diventare norma. Dovrebbe, nel nostro mondo, entrare a far parte del sentire comune. Dovrebbe diventare terreno di discussione e dibattito per affrontare anche i tanti problemi pratici e teorici che questa nuova impostazione comporta.
Insomma quello che mi sembra mancare è un humus etico condiviso (al di là delle appartenenze a questo o quel gruppo, politico o sportivo che sia) che ci collochi in linea con il sentire comune di quanti il nostro sport lo vedono da lontano. Pensiamoci perché il prezzo che rischieremmo di pagare, oltre alla disistima, sarebbe l’isolamento.
Angela del Rio























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