Luck: il cavallo si vede ma non c'è
Una bellissima panoramica dall'alto sulle gabbie che si aprono alla partenza di una corsa di galoppo: ed ecco il drone inseguire lo scatto dei purosangue lanciati sulla pista. La serie di Sky Atlantic "Luck" - che significa Fortuna - racconta la storia di un ippodromo e degli interessi economici ( per meglio dire malavitosi) che si intrecciano in quel luogo dove il gioco, la sorte e la fortuna degli scommettitori si intreccia con il lavoro di allenatori, fantini, veterinari e cavalli.
Benchè giunga in Italia con dieci anni di ritardo rispetto all'uscita americana, la serie conserva, sulla carta, tutto il suo appeal: il protagonista è Dustin Hoffman, il regista e produttore è il grande Michael Mann, coprotagonista è Nick Nolte, e attorno a loro sfila una lunga serie di celebrati e capaci caratteristi. Il sottotitolo della serie, che in Italia ha conservato il titolo inglese è "La fortuna gira per tutti". E dunque la vicenda ragiona sull'azzardo, sul rischio, sullo sperdimento degli uomini di fronte ai demoni del gioco. Che riguardano le carte, ma nel caso dell'ippodromo anche e soprattutto i cavalli. Comprati, addestrati, curati nei loro infortuni, assegnati a un fantino piuttosto che a un altro.
Nel gioco degli scacchi il cavallo si muove un po' in avanti e un po' lateralmente. Dopo la Regina, è la pedina più fantasiosa, tanto che il grande Vittorio Foa ha scritto un saggio sulla storia del Novecento intitolato "La mossa del cavallo", e Camilleri ha usato lo stesso titolo per uno dei suoi molti gialli.
In questa serie di Michael Mann i cavalli sembrano esserci, ma in realtà non hanno diritto di esistenza. Non intercettano nessun sentimento dei protagonisti, esistono soltanto quando si aprono le gabbie e scattano. Oppure quando si fanno male, e dunque rischiano di venire abbattuti o "riaggiustati", solo se potranno garantire nuove gare e nuovi eventuali guadagni.
Quel raro - ma possibile - rapporto fra proprietario, allenatore, fantino in cui le regole della gara si mescolano all'affetto, qui non ha cittadinanza. Nella serie non c'è posto per una vicenda come quella di Waikiki Beach, padre del grande trottatore Varenne, vissuto fino a 37 anni, coccolato e vezzeggiato nella scuderia di Bruno Farneti, che lo ha considerato un componente della famiglia fino all'ultimo giorno di vita ( chi vuole saperne di più può leggere l'articolo di Paola Olivari pubblicato da Cavallo 2000 nel gennaio di quest'anno).
In "Luck" a provare questo intreccio di sentimenti e di pulsioni è soltanto il periferico e anzianissimo personaggio interpretato da Nick Nolte ( è per questo che in testa alla rubrica abbiamo scelto una sua immagine) che parla con il suo puledro al debutto, andandolo a trovare nel box: quella scena, in cui si rievoca la fine inflitta allo stallone suo padre, ucciso per riscuotere un premio assicurativo, è uno dei rarissimi momenti in cui il diritto-dovere all'emozione che dovrebbe accompagnare la vita di ogni essere, ha finalmente cittadinanza.
Questa notazione ci porta a un discorso più ampio, che riguarda i molti film di cavalli che continuiamo a vedere e recensire. Fino a quando il film è per ragazzi il sentimento scorre impetuoso. Spesso melenso, spesso manierato, spesso regalando al cavallo una vocazione antropomorfa, che lo spossessa della sua irrinunciabile identità animale. Quando il film - o la serie - diventa per adulti, allora le potenzialità di un legame e di un colloquio emotivo si vanificano quasi sempre. Ancora oggi gli uomini non hanno diritto ad emozioni che non siano la rivalità, la caccia (metaforica e non), il guadagno, la supremazia. Non hanno "le parole per dirlo", e dunque non hanno alcuna capacità di elaborazione, e di conoscenza.
Tornando a "Luck", ci troviamo di fronte a uomini senza altro slancio che non sia quello del denaro, della vendetta, del predominio. Hoffman, nei panni di "Ace" - un Asso finito per tre anni in galera, che una volta fuori vuole pareggiare i conti con chi l'ha tradito, comprando l'ippodromo attraverso intermediari - è giustamente freddo e antipatico. E i pochi squarci della vita di scuderia sono ben disegnati ( anche se massacrati da un doppiaggio in cui "allenatore" diventa "addestratore", in cui "montare" diventa "cavalcare", e ci fermiamo qui perché l'elenco completo sarebbe lungo e noioso).
La serie, sospesa alla terza stagione, ha una storia travagliata e illuminante: gli ascolti non erano eccelsi, ma a deciderne la chiusura è stata una furibonda battaglia animalista, nata dal fatto che durante le riprese sono morti tre cavalli, in incidenti in pista. Così la produzione si è arresa e ha cancellato la serie. C'è da chiedersi cosa sarebbe accaduto se gli ascolti fossero stati alti. Questa volta la fortuna è stata sfortunata. E ben le sta.