La ''potenza'' con i pony, un'offesa
alla formazione dei giovani
MOLTI, significativi e articolati gli interventi giunti in redazione sul tema della gara di potenza riservata ai pony che si è disputata a RomaCavalli il 9 aprile (e che ha visto scendere in campo ben….sei partecipanti!). Una tematica complessa che a nostro avviso però per essere di una qualche utilità dovrebbe trascendere gli aspetti più intrinsecamente tecnici per investire quelli più squisitamente culturali. La domanda che dobbiamo porci infatti è quale debba essere il messaggio che vogliamo trasmettere ai giovani che si avvicinano al cavallo: quello di un agonismo esasperato che considera l’animale solo uno strumento o quello che aiuta a costruire una relazione corretta con il proprio compagno di gioco prima e di gara successivamente? Il problema è tutto qui.
La giovane amazzone che davanti ad un rifiuto del proprio pony lo ricopre di frustate è uno smacco non tanto dal punto di vista sportivo, quanto e soprattutto da quello etico e pedagogico. Significa aver tradito il compito più importante del nostro sport, quello di aiutare i giovani a acquisire una struttura della personalità equilibrata, cioè a formarsi un carattere che sia forte senza essere aggressivo, coraggioso senza essere avventato. C’è una caratteristica che rende l’equitazione diversa da ogni altra modalità sportiva: essere sostanzialmente un’attività che si svolge insieme ( e non contro) un altro essere vivente. Un’attività che presuppone la capacità di imparare ad uscire da se stessi, dalle proprie aspettative e dai propri desideri per mettersi nei panni del proprio compagno di gara per rendersi conto di ciò che è in grado di dare, non solo in termini assoluti, ma anche, volta per volta, a seconda delle sue condizioni psicofisiche. Insomma andare a cavallo dovrebbe aiutare i più giovani ad acquisire una regola di vita basata sul rispetto dell’altro che poi sarebbe utile applicare anche nei confronti dei propri simili. Serve la gara di potenza a tutto ciò? Direi di no, così come non serve alcuna modalità di agonismo esasperato.
QUESTO E’ IL PUNTO che, al di là di tutto, occorrerebbe porre al centro del dibattito. Ed a farlo dovrebbero essere soprattutto coloro cui è delegata la formazione dei giovani cavalieri nel loro primo avvicinarsi al mondo equestre. Questo è il punto sul quale sarebbe opportuno interrogarsi anche rispetto al grandissimo turn-over al quale si assiste nel mondo pony. Provare a chiedersi se i tanti ragazzi che abbandonano l’equitazione e il cavallo non siano il segnale che qualcosa nella loro formazione non ha funzionato come avrebbe dovuto. E non parliamo solo della promessa di accedere ai vertici dell’agonismo, necessariamente riservato a pochi. Parliamo del “tradimento” di quel sogno infantile che li aveva avvicinati al cavallo per curiosità, per amore verso gli animali, per il bisogno di contatto con il mondo della natura e con la propria vita emozionale. A volte viene da temere che quelli che lasciano siano i più sensibili, i più spontaneamente attenti al benessere del loro compagno, quelli che forse in un altro contesto, avrebbero saputo o potuto seguire le orme di cavalieri quali Michel Robert.
E’ su tutto questo che la Fise dovrebbe cominciare a riflettere, accettando la critica e il confronto, aprendosi al futuro ( invece di tenere la testa ostinatamente rivolta verso il passato) accogliendo, elaborando e facendo propria la nuova sensibilità nei confronti del mondo animale che ormai percorre l’intera Europa.
La potenza, anche quella riservata ai cavalieri adulti (e a RomaCavalli ne abbiamo avuta l’ennesima dimostrazione) è la negazione di tutto ciò e non basta a renderla accettabile sostenere che così si riempiono le tribune. Anche il Colosseo conteneva 50.000 posti. Vogliamo riattivarlo?