Iroso e Big Star, simboli della complessa relazione uomo-animale
Un vecchio mulo con un nome battagliero: Iroso. Un meraviglioso stallone che ha fatto onore al suo cavaliere, vincendo la medaglia d'oro in salto ostacoli alle Olimpiadi di Rio, e che nelle scorse settimane è stato ritirato dalle gare: Big Star. Due equidi, certo. Ma lontani che più lontani non si può. Per morfologia, per attitudini, per destino. Eppure, ad unirli, c'è un elemento che li accomuna. Il lavoro che ambedue hanno compiuto con l'uomo. Per l'uomo.
Iroso ha 38 anni, In termini umani, è intorno ai 115 anni. E' stato un mulo dell'esercito e quando nel settembre del 1993 gli ultimi "muli-soldati" furono messi all'asta dal Comando della Brigata Alpina Cadore, Iroso assieme ad altri suoi compagni è stato acquistato da un ex alpino, che ancor oggi lo accudisce e che - con un van imbottito e con tutte le precauzioni - lo ha portato a Treviso come "star" della novantesima adunata nazionale degli alpini.
Big star ha invece salutato i suoi appassionati davanti alla Regina Elisabetta. Il suo cavaliere Nick Skelton si è tolto la giacca della squadra olimpica, si è infilato una giacca da caccia, lo ha dissellato e lo ha portato fuori sottomano fra gli applausi scroscianti del pubblico ( e due fantasmagoriche doppiette di calci del suo compagno di gare).
Dietro queste due cerimonie, ci sono anni di colloquio. Fra l'uomo e l'animale. Si può essere etologi, e voler osservare il comportamento degli animali in libertà. Si può essere uomini e voler colloquiare con gli animali, coinvolgendoli in un progetto di lavoro comune.
Certo, osservare un cavallo che pascola in un prato all'ombra di un noce, è meraviglioso. Studiare un branco di cavalli selvaggi ( davvero lontani dalla domesticazione e non mostrati a turisti ingenui) è straordinario. Per osservare un animale in libertà occorre garantirgli un territorio consono ( ed è per questo che l'etologo Danilo Mainardi disse più di trent'anni fa che l'etologia non aveva senso senza la salvaguardia dell'ambiente). Occorre farsi invisibile. Occorre armarsi di una pazienza infinita (voglio qui ricordare il professor Boitani, responsabile trent'anni fa del "progetto lupo" del WWF, che si beccò una broncopolmonite bilaterale dormendo in pieno inverno in una piccola tenda zuppa di neve, pur di non perdere le tracce di uno dei pochi lupi da lui rintracciati sulla Maiella).
Ma il rapporto che si costruisce con un mirato, ravvicinato, intenso colloquio quotidiano che mette alla prova tutte le possibilità della comunicazione, è altrettanto meraviglioso. Prevede la creazione di un linguaggio comune fra umano e non umano. Linguaggio che può essere molto elementare, ma che - proprio grazie al lavoro - ha la possibilità di raffinarsi sempre più. E di rendere più ricchi, più accorti, più intelligenti (nel senso letterale del temine: intelligere= capire) i due interlocutori. E' indubitabile che più si alza l'asticella delle richieste più deve alzarsi contemporaneamente quella del rispetto e della conoscenza, prima ancora che della cura. Che - diciamolo fino allo stremo- va garantita per tutta la vita dell'animale e non solo quando "lavora". Un lavoro che deve esaltare le potenzialità dell'animale e non mortificarle: dimentichiamoci dunque dei circhi con animali selvatici. Ma sorridiamo senza sensi di colpa ai numeri del cagnolino pagliaccio che si esibisce con il suo addestratore.
E' una vecchia regola dello stare assieme: per interagire con successo, dobbiamo saperci mettere nei panni dei nostri interlocutori. E dunque il cavaliere deve diventare cavallo. E del cavallo sapere tutto: attitudini, paure, necessità. L'alpino è diventato mulo e del mulo ha conosciuto paure, robustezze, testardaggini. Il minatore del Galles (segnato da un durissimo lavoro) è stato il piccolo pony che veniva sfruttato in miniera esattamente come lui. Il corriere governativo Perrault che agisce nell'Alaska del "Richiamo della foresta" diventa cane. E fabbrica a Buck, meraviglioso cane lupo nato nei paesi caldi e non abituato ai terreni gelati, delle scarpette di renna.
Nessuno vuole nascondere e neppure dimenticare l'atroce verità dello sfruttamento animale: nella Francia della fine dell'Ottocento, l'agricoltura teneva in lavoro tre milioni e mezzo di cavalli. Ai soggetti particolarmente robusti veniva affidato il compito improbo di trascinare le chiatte che dovevano risalire i fiumi. Nessun cavallo resisteva a questo lavoro più di una decina di mesi.
La meccanizzazione ha reso inutilie molta parte di queste crudeltà. Oggi noi ci sentiamo, o ci crediamo, "più attenti", più consapevoli. Ci indigniamo (giustamente) per un cane tenuto a catena, salvo poi ignorare l'atroce abominio degli allevamenti intensivi; oppure consumiamo uova che provengono da galline stipate inverosimilmente in un metro quadro, sempre con la luce accesa, e nutrite con mangimi inaccettabili ( una nota: le galline sono intelligentissime, distinguono un triangolo da un cerchio, sanno costuire una gerarchia all'interno del loro gruppo. Basta leggere un saggio del neurobiologo Giorgio Vallortigara intitolato "Altre menti" che tratta di questo).
Mai come oggi la parola "lavoro" ha bisogno di essere ridefinita. E' un processo necessario per il lavoro degli uomini. E altrettanto per il lavoro che possono fare gli animali. I quali sono talvolta ancora necessari. Penso ai cavalli da tiro usati per i terrazzamenti liguri. Ai muli di Opi usati nei disboscamenti controllati. Penso ai pony che fanno scoprire ai bambini il piacere di stare in sella. Penso anche ai cavalli delle attività ludiche, turistiche. Ai bei destrieri dell'agonismo (che spesso patiscono come gli altri equidi vecchiaie segnate dal disinteresse e dall' abbandono). Tutti questi animali devono avere condizioni di vita rispettose e vecchiaie dignitose. Con queste premesse, il lavoro comune apre ricchissime prospettive di comprensione e di confronto che è impensabile vadano perdute.
Per provare a intervenire e a modificare queste diverse, numerose e talvolta conflittuali realtà, non basta dichiararsi animalisti. E' piuttosto necessario ridisegnare l'intero assetto del rapporto uomo- animale. Nel lavoro comune che eventualmente svolgiamo assieme, nel cibo che diamo a loro e che mangiamo noi. Ha scritto giustamente Michele Serra che la rissa fra onnivori e vegetariani è inutile e assurda: tra chi mangia un po' di carne allevata al pascolo, ben vissuta e ben nutrita e chi si nutre di proteine imbustate c'è molta più differenza "politica" che tra un carnivoro e un vegano.
E' una strada lunga, è certamente faticosa, è molto complessa. Ma credo sia l'unica davvero pagante.