Il torneo nel Medioevo, un sistema di promozione sociale
Lo replicano per lo meno due volte l'anno nelle più diverse reti televisive. Si intitola Il destino di un cavaliere ed è un azzeccato esempio di quel cinema d'avventura che racconta le gesta dei cavalieri medioevali. E - naturalmente - dei loro cavalli. Cosa rende Il destino di un cavaliere un film particolarmente riuscito? Non solo il ritmo, i costumi, l'intreccio ma anche l'intuizione - storicamente fondata - che i tornei cavallereschi fossero nel medioevo un'attrazione simile ai concerti rock di oggi. Tant'è che il film - interpretato da Heath Ledger, giovane e talentuoso attore australiano precocemente scomparso - sfoggia un modernissimo commento musicale, composto da brani di Eric Clapton, Dawid Bowie, i Queen, Robbie Williams, che fanno da felice contraltare alle gesta del protagonista. La storia ( il film si trova anche on demand e se non l'avete ancora visto, è il caso di goderselo) è quella di uno scudiero, William, il cui padrone muore durante un torneo. Per riuscire a mettere assieme il pranzo con la cena William decide di indossare l'armatura del cavaliere defunto e di gareggiare in sua vece, divenendo così - sotto falsa identità - una vera star di quella stagione di tornei.
Se consultiamo il bel saggio di Jean Flori Cavalieri e cavalleria nel Medioevo edito da Einaudi, a pag 147 leggiamo che il "Guglielmo il maresciallo inizia la sua carriera partecipando a uno dei suoi primi tornei 'povero di averi e di cavallo' . In seguito, grazie alle sue vittorie, ne riparte con più di 4 cavalli per sé, con ronzini e palafrenieri per i suoi scudieri, e con averi sufficienti per essere considerato con tutt'altro occhio rispetto a prima. Nel torneo di Eu - continua Jean Flori - batte 10 cavalieri e prende 12 cavalli. In dieci mesi, associandosi a un compagno d'arme con cui divide le spese, batte 103 cavalieri, prendendo in premio cavalli ed equipaggiamenti, armi e armature".
Ma come deve - anzi, doveva - essere il cavallo da torneo? Ragioniamo un po' e dimentichiamoci gli scalpitanti destrieri che vediamo al cinema, da Excalibur di John Boorman a Bravehart di Mel Gibson, fino al più recente dei numerosi Robin Hood, quello di Ridley Scott ( in cui c'è un altro cambio di identità, attraverso un' armatura sottratta dal plebeo Robin a un cavaliere titolato). E facciamo invece un po' di conti: un cavallo da torneo doveva essere in grado di portare circa 200 chili, costituiti dalla sua stessa armatura ( chiamata catafratta o barda), quella del cavaliere, cui va sommato il peso del cavaliere medesimo, e quello delle sue armi: la lancia, l'arma da botta, la spada, lo scudo e quant'altro. Insomma, un carico enorme. Inevitabile che i cavalli da torneo fossero grossi, pesanti, con schiene robuste. Ma senza scatto. Dei motori disel ( pensate al monumentale frisone nero sulla cui groppa combatte il protagonista di Lady Hawke). Parliamo di un'epoca in cui la leggerezza e la resistenza dei cavalli arabi non s'era ancora ibridata con i robusti (e lenti) destrieri di cui stiamo raccontando. Poiché il cavaliere doveva spingere il suo cavallo al galoppo, aveva degli speroni cruenti e assai lunghi. La salute del cavallo veniva tenuta in poco conto, quando c'era il rischio di venire colpiti dalle tremende armi dell'avversario.
Se qualcuno va a vedere il museo di Valletta, a Malta, dove vengono conservate numerose armature, scoprirà che sotto quella protezione il cavaliere era obbligato a portare una sorta di abito imbottito, per evitare che il metallo gli piagasse la carne. Combattendo a quelle latitudini con i turchi molti cavalieri morivano di colpi di calore. Anche i cavalli spediti nelle crociate (pesanti, pelosi, abituati a climi rigidi d'Inghilterra) finirono per morire prima ancora di combattere, a causa di una mancata acclimatazione.
Ma, tornando al torneo, qual era il suo senso? Era un' antica festa crudele, una metafora della guerra (come per certi versi lo è il calcio, certamente meno sanguinario). Ma era anche una sorta di "ascensore sociale": tant'è che Guglielmo il maresciallo - ci racconta ancora Jean Flori - "al termine di una lunga carriera che lo portò al vertice degli onori cavallereschi, ottenne da re Riccardo la mano della diciassettenne Isabella de Clare, una delle più ricche ereditiere del regno". Un ascensore sociale a cui potevano ambire i cavalieri senza fortuna, i cadetti di famiglia, ma non il popolo. Di qui il necessario "scambio di identità" del protagonista del Destino di un cavaliere, che - appunto - cavaliere non è. Non vi diremo come andrà a finire la storia, per non toglievi il gusto di godervi il film, se ancora non l'avete visto. Ma una notazione possiamo farla: quanta verità in più c'è in questa vicenda che mescola disinvoltamente la necessità di denaro alla ricerca di gloria, rispetto ai paludati filmoni mediovali tipo Ivanhoe in cui si parlava soltanto di onore. Chi in queste storie non ha mai voce, è il cavallo. Neppure nel film del grande Robert Bresson Lancillotto e Ginevra. E pensare che Bresson ha girato un capolavoro assoluto con un asino come protagonista: Au hazard Balthazar. Ma, ancora una volta, questa è un'altra storia.
Post Scriptum: prima di congedarmi devo rettificare quanto ho sostenuto nella rubrica precedente, in cui m'inchinavo davanti all'abilità di cavaliere di Michele Riondino, protagonista del film televisivo La mossa del cavallo tratto da un romanzo di Andrea Camilleri. Una lettrice, Rosanna Cascione, che ringrazio, mi segnala che Riondino ha avuto come controfigura un bravissimo cavaliere di nome Davide Alescio, truccato con barba e pizzetto. Tutti i miei complimenti a Davide e anche al regista Gianluca Tavarelli, che ha saputo alternare primi piani e campi lunghi con grande maestria. Sia dato a Cesare quel che è di Cesare!