Giovanni Gamberini e il cavallo....chi?
Era solo gennaio scorso (non sapevamo ancora che di lì a poco l’umanità avrebbe ricevuto un primo avviso di sfratto) quando con Giovanni Gamberini abbiamo presentato, nella nostra rubrica televisiva ‘A cavallo di libri e dintorni’, il suo ultimo libro “Un designer tra i cavalli-storie da mondi diversi/spunti di vista e punti di svista” – Equitare 2019). Nei limiti di quel quarto d’ora di trasmissione, s’è cercato di dire il più possibile. Cioè neanche l’ombra della multiformità del ‘tutto’ contenuta in queste cento, potenti pagine.
“Còlere”, dicevano i Latini. Significava “coltivare con cura, con attenzione”. Verso gli dei era, dunque, “culto”; verso sapienza e sapere, “cultura”. Da questo “spunto di vista”, come direbbe con raffinatezza dadaista l’autore, etimologico, il libro è in sé opera di cultura. E non solo equestre. Anzi, per meglio precisare: la cura con cui sapere e sapienze vengono riversate su queste pagine, fa dell’autore un produttore di cultura a tutto tondo.
Scorrono, in fluida lettura, dodici concentrati capitoli, ognuno dei quali si compie in sé, nella propria originale essenzialità. E, allo stesso tempo, si intersecano e raccordano l’uno nell’altro, attraverso la trasversalità del cavallo.
Dodici capitoli ad effetto caleidoscopio, nei quali Gianni (a ben pensarci, ci piace di più chiamarlo per nome; “autore” suona con un ché di anonimo, che non si addice alla sua personalità e, ancor meno, a quella del libro) ricorda, analizza, riflette, indica, propone, considera, rileva, evidenzia, estrae, deduce, accoglie, respinge, approfondisce, critica, racconta. Non giudica.
Poche certezze, molti dubbi. E ancor più domande. Una su tutte – “chi sono? “- lo accompagna, anzi lo spinge, in giro per mezzo mondo. Pietra angolare di ogni esistenza umana, la ricerca del “chi sono”. In assenza, il “chi è” l’altro permane mistero, ombra, pronta a trasmutarsi in minaccia.
L’altro, dunque, come chiave di volta del “chi sono”. E allora capiamo bene il sentimento di gratitudine con cui l’autore si congeda, in Malesia, dal suo “collega” designer. Le considerazioni di quest’uomo, sobrio nella sua elegante anzianità, inducono malinconiche, se non amare, riflessioni. Soprattutto in chi, come Gianni, ha alle spalle “un Sessantotto studentesco caldo e impegnato”.
Invece con il fabbro, elettricista, maniscalco, e Dio solo sa cos’altro, di un villaggio sperso in qualche parte dell’Equador, sono subito scintille. Questo signor “so fare tutto io”, sentita l’innocente richiesta di Gianni, se lo guarda un po’ in tralice e spara una provocazione da lasciare di sasso. Ma non basta. Quella richiesta deve suonare per forza come qualcosa di inaudito, perché il fabbro eccetera non solo provoca ma lo prende quasi di petto tirando in ballo, pensate un po’, le …donne. Cosa centrino le donne, solo dio lo sa. Ma non gli basta ancora. Sferra il colpo di grazia: “sei proprio un gringo”. Che da quelle parti non è un affettuoso nomignolo, da quando, in Messico, i rivoluzionari di Pancho Villa sparavano sulle divise verdi degli americani urlando “green go home”. Diciamo la verità: in altre circostanze la faccenda non sarebbe finita in modo pacifico. Magari non sarebbero volati sganassoni, ma insomma…. Tutto assurdo, troppo assurdo. E invece…niente di più semplice, normale, coerente. Non che l’elettricista eccetera avesse ragione a trattarlo in quel modo. Qualche motivo, però, c’era. Il bello è che Gianni li avrebbe riconosciuti, questi motivi, come propri, dopo il racconto a fil di voce di Libertad. Un racconto affascinante e drammatico. Nel villaggio lei, piccola, minuta, quasi trasparente, con tanti di quegli anni che anche il tempo ne ha perso il conto, è un’autorità. Perché lei, di quel mondo e della sua gente, è la Memoria.
E ancora esperienze e incontri si rincorrono. Mario, ad esempio, al quale manca soltanto di fare anche il critico d’arte per essere una uomo da utopia marxiana; oppure il dottor “Uno Mille”, che coglie le tante personalità del cavallo e le declina in mille modi diversi; oppure il relatore francese e l’intuizione dei “negoziati gestuali”. E sullo sfondo, alle origini, si staglia la figura del padre, che educa il piccolo Gianni alla empatia e alla umanità, lasciandogli nell’anima un segno indelebile con la storia dello ‘zingaro’ e del cavallo: “io l’ho visto – concluse il padre- da come si sono guardati…mai picchiare i cavalli…Si avviliscono”. Non è semplice sentimento: è l’universalità della ‘pietas’ che si fa vita vissuta. La stessa che provò Rosa Luxemburg di fronte al bufalo martirizzato: “oh, mio povero bufalo, amato fratello” (lettera a Sonjia Liebknecht dal carcere di Breslavia -1917).
Quel “mio futuro con i cavalli” che aveva intravisto tanti anni prima si è avverato. Gianni diventa ciò che è: uomo di cavalli. Li conosce e da loro sa farsi riconoscere. Proprio come lo ‘zingaro’ raccontato dal padre.
Conoscere, conoscersi e saper farsi riconoscere: condizione non negoziabile per insegnare. Disporsi a conoscere, a conoscersi e a farsi riconoscere: condizione non eludibile per apprendere. Queste le sponde entro le quali Gianni accetta di insegnare a chi è disponibile a far propria l’etica di questi inscindibili imperativi. C’è qualcosa di eccessivamente rigido, pretenzioso, in questi due cardini dell’insegnare e dell’apprendere? Dal nostro personale “spunto di vista”, no. Comunque, nei confronti di chi avesse una opinione, più che legittima, ci mancherebbe altro, diversa, nulla da eccepire. Tale legittimità, però, non esime dal fare i conti con le pezze d’appoggio che Gianni porta a sostegno (Friederich Nietzsche – Joseph Juobert – Jean Jaures). Non sono, va da sé, verità rivelate. Però aiutano, per quanto possibile, a non trasformare il vivere che ci è dato in un refuso dell’esistenza.
Ne consegue che istruire avrà un senso se si potrà insegnare non “cosa è”, ma “chi è” il cavallo, accordando le possibilità empatiche umane con il diapason del suo “intelligere”, in quanto soggetto autonomo e attivo nelle dinamiche dei sistemi relazionali. Così si lavora con i cavalli. Esattamente come si vive: dotare la propria identità di un “chi sono” capace di posizionarsi è riposizionarsi al setaccio dei punti di svista e degli spunti di vista, che intrecciano di complessità, e di contraddizioni, ogni esistenza. Il che, in definitiva, nient’altro significa che perseguire la possibilità di un mondo nel quale anche ad un “gringo” gli si disvela il “chi sono” guardandosi con gli occhi di una Libertad.
Ecco, questo è il libro di Giovanni Gamberini. Un libro esigente: non gli basta essere letto. Pretende confronto.
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