El Cid e Babieca, chi dei due fu il vero eroe?
LI VEDO STAGLIARSI CONTRO L’ORIZZONTE. La luce colpisce l’armatura evocando i lampi delle battaglie. E’ così che dovevano essere nella loro ultima, folle cavalcata sulle rive del mare di Valencia. Una perfetta macchina da guerra con due corpi e un’anima soltanto: quella del cavallo. L’altro, l’eroe spagnolo per eccellenza, colui che portava il nome di Cid Campeador, era già scivolato oltre la nostra dimensione. Ma in quella giornata a introdurlo nel mito fu il suo destriero: Babieca.
Ed allora sentiamola questa storia di guerra, di morte e d’amore narrata dalle voci dei due protagonisti. Ormai mi sono vicini. Ma non mette piede a terra Rodrigo Diaz de Vivar, si limita solo ad alzare la visiera.
“Non sono un eroe, almeno nel senso in cui lo intendete voi moderni. Lo so, di me molto si è scritto, ma non sono mai stato il liberatore della Spagna dai mori come racconta il Cantar del mio Cid. Ero soltanto un cavaliere, che ha combattuto con fedeltà e coraggio, a fianco di chi ritenevo fosse dalla parte del giusto: arabi o cristiani non faceva molta differenza. A contare erano soltanto gli uomini, per questo forse ho conquistato la stima di molti. Ma se il mio nome è entrato nella leggenda il merito è soprattutto suo”. La mano guantata sfiora lieve il collo di Babieca, il suo cavallo.
“L’ho scelto in mezzo a tanti, in un giorno accecante di sole. Io ero poco più di un ragazzo. Lui un giovane puledro, goffo e intraprendente. Il mio padrino, un monaco certosino ( in molte abbazie a quei tempi si allevavano cavalli: i migliori di Spagna) mi aveva condotto a prendere quello che sarebbe dovuto diventare il mio compagno d’arme. Restò sorpreso della mia decisione e mi dette dello stupido. - accenna un piccolo sorriso – e per questo lo chiamai Babieca. Non ero allora un cavaliere molto esperto, ma di una cosa ero sicuro: lo sguardo di quel cavallo rivelava una grande personalità. Coraggio, spirito di iniziativa, duttilità: le doti necessarie per un destriero in battaglia. Ed il tempo mi ha dato ragione. Senza di lui sarei morto mille volte. Mi ha sempre saputo riportare indietro. Anche quel 10 luglio del 1099 ha saputo districarsi dall’infuriare della battaglia e, piegato sull’arcione, ormai incosciente, mi ha ricondotto dentro le mura di Valencia. La città era assediata e la notizia della mia morte imminente aveva rincuorato i nemici.Yusuf ibn Tashfin non era un avversario come gli altri. Violento, infido, spietato avrebbe messo la città a ferro e fuoco.Nessuno degli abitanti sarebbe sopravvissuto alla conquista. Fu così che inventai l’ultima trappola. Ordinai che morto mi si legasse alla sella, la mia spada Tizona (potete vederla ancora, conservata nel museo dell'esercito di Madrid) ben stretta nella mano. Al resto avrebbe pensato Babieca. Fu lui che alla testa delle mie armate avanzò contro i nemici, fu lui che dopo la vittoria, per l’ultima volta guidò il mio ritorno. A lui, e soltanto a lui, si deve la salvezza di Valencia.”
Tace. Guardo il cavallo: lo scuote un fremito sottile.
Ma non avevi paura, mi viene da chiedergli
“E di che cosa? A quei tempi colpire un cavallo durante il combattimento equivaleva al reato di fellonia. Provavo angoscia, come sempre. Durante la battaglia la percezione del dolore degli uomini ti si appiccica addosso. Quel giorno in più c’era la sofferenza di un distacco, la sensazione di essere rimasto solo, ma ho fatto quello che si doveva fare” Gira la testa verso il suo cavaliere: “Glielo dovevo”
“Perché?
Può la meraviglia disegnarsi sul muso di un cavallo?
“Perché in un giorno lontano aveva saputo leggere nel mio sguardo che lo stavo aspettando e mi aveva scelto!”