Donne e cavalli, due archetipi che si incontrano nell'arte
Ora so cosa sognano le giovani amazzoni; sono scivolata nel sonno delle cavallerizze in erba e ho spiato i loro desideri.
Adesso so dove indugiava nell’ infanzia la mente delle donne che hanno sempre amato galoppare e vivere coi cavalli e me l’ha svelato un pittore, Adelchi Riccardo Mantovani, che fa dell’onirico e dei ricordi il soggetto dei suoi quadri.
Mesi fa ho potuto amare, perché di un amore folgorante si tratta, un quadro che mi è stato mostrato di questo artista dal titolo Bambina sogna di cavalcare, che fa parte della mostra “Il Sogno di Ferrara” al Castello Estense fino al 9 Ottobre e da allora ogni sua opera per me è stata una scoperta.
Ma questo pittore, che ha saputo così ben cogliere quel sentimento che è proprio di ogni equestre di cavalcare cavalli liberi e indomi, in quale altri modi vede questo animale archetipo di libertà e istinto? Un artista che dipinge una bambina che intrattiene con uno di loro una conversazione tenendo tra le dita un frustino leggero, che rapporto ha con i cavalli? A queste domande proprio lui mi ha dato risposta e così mi racconta che questo quadro faceva parte di uno studio preparatorio per un progetto più ampio, “Nolite conturbati, nil nisi omnium est”, e che affascinato da quella bambina che intrattiene un dialogo tra le montagne con dei cavalli volanti, ha deciso di farne un quadro a sé, ma che il cavallo non è presente in altre sue opere e in lui non vi è alcun interesse particolare per questa figura ( come io stessa avevo intuito dai quadri presenti a Ferrara).
Però dopo alcuni giorni il pittore mi invia un’opera, La Prima Cavaliera dell’Apocalisse, e i sentimenti che quella bambina perduta tra le montagne e intenta in una conversazione fantastica, aveva acceso in me, riaffiorano.
Qui una giovane “cavaliera” sembra precipitare senza peso con il suo cavallo bianco, su una tavola imbandita. È bellissima, adornata da una corona e una collana preziosa ma nuda, di una bellezza seducente e verginale. Irrompe nella quotidianità di una famiglia rovesciando il vino sulla tavola, facendo cadere i biscotti dalle mani di una donna sorpresa. Casca dal cielo assieme ai fulmini che spezzano le ore di un campanile sullo sfondo, stravolge la regolarità di un pranzo qualsiasi, di una famiglia ordinaria che si appresta a mangiare su una terrazza a ridosso di un mare in tempesta.
C’è ancora la bambina, con lo stesso viso sognante che ci ricorda quella che conversa nel sogno coi cavalli bianchi e c’è lo stesso pittore, qui più giovane di almeno quarant’anni e non vi è spavento nei suoi occhi, nemmeno stupore, forse curiosità.
I paesi alle loro spalle “”sono borghi che si trovano arroccati su cime di montagne tra il Lazio e la Toscana", mi racconta l’artista, eppure, per quanto possano sembrare reali, sono luoghi immaginari. Nulla è vero, tutto potrebbe esserlo.
Mantovani, è diverso dagli artisti che ho conosciuto: l’arte è nata con lui, nei primi anni ‘40 in una provincia ferrarese che riaffiorerà come scenario nostalgico in tutti i suoi paesaggi. Gli apparteneva anche quando non faceva parte della sua vita, quando era un bambino in un collegio nel ferrarese; l’ha seguito fino a Berlino negli anni ’60 quando lavorava in fabbrica come tornitore. Dalle pagine di quaderno disegnate fitte dalle suore, in collegio, ai corsi nelle scuole serali di pittura, di nudo, di storia dell’arte, dopo il lavoro. L’arte rimane al suo fianco finché prende il sopravvento nella sua vita: nel 1972 lascia il lavoro di operaio e può dirsi pienamente artista, “selvaggio” come si definisce lui riferendosi alla sua formazione solitaria iniziale “senza studi né sostegni”, ma non è un pittore ingenuo, ci sono l’arte antica e le nuove correnti figurative del novecento nei suoi quadri, la metafisica di De Chirico e il tono fiabesco di Delvaux e Magritte e tutta la forza del naturalismo fiammingo.
Fino al momento in cui viene scoperto, rimane fuori dai radar dei critici, dal mercato delle gallerie e delle mostre ufficiali, fuori da qualsiasi corrente. C’è il Realismo onirico, ma ci sono anche più semplicemente i suoi ricordi e i nostri che si fanno immagini. Al di là di ogni definizione.
Adelchi Riccardo Mantovani vive a Berlino, ma grazie a Vittorio Sgarbi e alla Fondazione Ferrara Arte con questa mostra torna ai luoghi che sono sempre nei suoi quadri come uno scenario fantastico. Che potrei dire di più su La Prima Cavaliera dell’Apocalisse?
Potrei raccontarvi di quanto l’ho osservata, di quanto ho setacciato ogni goccia di colore per scoprire altri particolari, di quanto ho fissato quei visi, le loro espressioni. Mi sono domandata su cosa si apra la porta chiusa sul fianco della montagna, in quale spazio segreto conduca, perché quel cane sullo sfondo rompa le proporzioni con tutto il resto. In una corrispondenza col pittore, lui non mi suggerisce un’interpretazione univoca, ma piuttosto di affidare la lettura dei suoi quadri alla mia sensibilità, leggere le immagini “secondo l’indole di colui che le osserva”, ed è così che ho iniziato un dialogo con quest’opera e gli interrogativi che ha acceso in me, quelli che mi sono posta, i miei ricordi, mi hanno reso parte della storia.
“Quel cavallo bianco, con la sua potenza immaginifica, precipitato nell’ordinarietà della mia vita, ha rovesciato il vino sulla mia tavola, mandato all’aria i miei programmi. La mia scrittura meraviglia chi mi sta attorno perché inusuale, in disaccordo con tutto ciò che di quotidiano faccio. Sono una “cavaliera”, mi rispecchio nella figura femminile con orgoglio, ma non sempre so gestire le mie inclinazioni, a volte sfuggono al mio controllo. Cavalco con leggerezza su un mare in tempesta, tra Toscana e Lazio, dove è ora il mio cuore” Ecco che potrei dire di me.
Ora provateci voi, leggetela con i vostri occhi e con il vostro animo e l’interpretazione sarà diversa, ma altrettanto giusta e quest’opera vi apparterrà.
È così che quel puledro bianco si fa immagine intima, personale, pur conservando la sua forza evocativa universale e l’arte di Adelchi Riccardo Mantovani diventa di ognuno di noi, aderisce all’immaginazione e al ricordo di chi la osserva. La giovane cavaliera, col suo carico simbolico, sembra inadeguata alla quotidianità degli uomini eppure le sue sono radici bibliche: tra i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, quello bianco della battaglia su cui ancora ci si interroga se abbia una valenza negativa o positiva, quello che “uscì vittorioso per vincere ancora” diventa un’amazzone bionda senza più l’arco e persino un po' maldestra mentre scombina la tavola ma, nonostante tutto, nonostante le onde che si alzano e i fulmini, attorno a lei nessuno ha paura.
“Peccato per il buon vino” mi ha scritto Mantovani e io non posso che amarlo anche per questo.