Cavalli verdi, una leggenda antica della terra di Sardegna
Tra tanti cavalli blu che Franz Marc dipinse, ne raffigurò anche alcuni verdi; saturò la forma dell’animale di colore e fece spiccare la figura da uno sfondo rosso e blu.
Anche Chagall disegnò cavalli verdi, quelli del circo, altri invece attori di una scena amorosa. Sono la proiezione di un sogno in cui il principio di realtà viene tradito e il colore assume una natura pura ed arbitraria. Seppur questi cavalli nascano dal loro immaginario, imprimono sulla tela una forza tale che potremmo considerarli veri; pensiamo che da qualche parte davvero esistano cavalli verdi capaci di pascolare su un prato rosso fuoco come quelli di Marc o fluttuare in un cielo blu cobalto come i puledri di Chagall. È un sentimento infantile che ce lo permette, puerile eppure terribilmente autentico.
Così anche Nora, la bambina che il protagonista de LA LEGGENDA DEL CAVALLO VERDE Alvise Pàvari Dal Canal incontra in un suo viaggio in Sardegna, vuole vedere un cavallo colorato, ma non quello dei pittori che lo fecero scivolare fuori dal cassetto dei loro sogni, lei chiede al nostro ippologo impegnato a studiare il cavallino della Giara come razza equina meritevole di essere candidata a Patrimonio dell’Umanità, di aiutarla a trovare quello verde della leggenda, un puddeccu, quello che la aiuterà a compiere il miracolo della sua guarigione.
Giorgio Caponetti, uomo di grandissima cultura equestre, scrive un libro che somiglia a un piccolo secretaire e col pretesto, e possiamo dire la competenza, di parlare del cavallo della Giara ci racconta una storia che si intreccia tra il presente di Alvise, Docente all’Università Ca’ Foscari e il passato di Marco Pàvari Dal Canal, cavaliere di fine ‘700, obbligato a lasciare la sua Venezia con un incarico militare: catturare i cavalli liberi e indomi dell’altopiano, addestrarli e ridurli al lavoro in miniera.
Leggendo questo libro si ha come l’impressione che ai nostri occhi si aprano dei cassetti in cui guardare, da cui si può sentire l’odore dei luoghi, della Venezia placida e umida di Alvise e il sapore dei cibi della Sardegna, della sua cultura e delle tradizioni talmente forti e radicate che si fanno personaggi nella storia. Questi luoghi e la vita di Alvise e Marco corrono paralleli per tutta la lettura, ma il piccolo cavallo della Giara è sempre lì e ne conosciamo caratteristiche, storie ed abitudini grazie a questi uomini che nel passato e nel presente ci raccontano di lui e ognuno a suo modo cerca di salvarlo; ciascuno col gesto di ribellione della propria epoca fosse anche scegliere il cavallo sardo, tra le tante razze italiane, come quello meritevole di essere protetto.
Queste storie si raccontano assieme, ma ciò che accomuna i due protagonisti, il salto temporale tra i secoli, l’ennesimo cassetto che si apre nella lettura, è la musica capace di unire due culture così differenti. Il sardo, lingua ostica e incomprensibile ai “continentali”, diventa poesia e si lega al linguaggio universale della melodia. La musica è ciò che avvicina Marco, veneziano al servizio dei malvisti piemontesi, a Colomba, la donna di cui si innamorerà e il suo violino sarà il linguaggio che andrà anche oltre quello amoroso e lo farà accettare e integrare anche dal popolo sardo così fiero e apparentemente chiuso di cui il giarino è simbolo.
Arriverete all’ultimo punto di questo libro e saprete tanto di questo animale; senza nemmeno accorgervene i protagonisti vi racconteranno di lui, del branco, ne amerete l’indole, il carattere nevrile, vi verrà voglia di sedervi sull’erba tra i cespugli e guardarli da lontano pascolare attorno a una pozza d’acqua e nel buio della notte anche voi spererete di vedere tra tanti mantelli, uno verde, quello che farà il miracolo e in parte contribuirete anche voi a compierlo perché l’intero ricavato della vendita del libro sarà devoluto al Centro Maria Letizia Verga di Milano che assiste i bambini malati di leucemia.
Vi tingerete di verde come i cavalli possenti di Marc o quelli più fiabeschi di Chagall. Conoscerete i cavalli della Giara e li amerete perché riconoscerete in questi l’indole ancora intatta dei cavalli verdi, giovani e ancora indomati, delle vostre scuderie.
Un’altra piccola nota.
C’è un ultimo cassetto in questa storia, rimane sempre aperto eppure proprio per questo non salta ai nostri occhi immediatamente. Alvise Pàvari del Canal ci appare come un seduttore nato, ha dalla sua una Venezia romantica, un’eleganza innata e una parlantina mai ridotta a chiacchiericcio. Eppure, le vere interpreti di questo libro sono le donne.
La piccola Nora con la sua semplicità di perla, la madre che rispecchia il carattere concreto delle donne sarde assieme alle altre figure in secondo piano con i loro vestiti ricamati, la loro forza matriarcale e Bianca, la dottoressa che Alvise incontra: bella, ma di una “bellezza piena e serena di una donna matura”, non rimane sullo sfondo, si fa “deus ex machina” nella storia; infine Colomba, memoria storica e chiave dell’intreccio narrativo. Non vi è nessun intento di esaltare la figura femminile nell’autore perché è qualcosa che è parte di lui: in questo libro le donne sembrano (a ragione anche dei ringraziamenti) proiezioni di femmine importanti nella vita di Caponetti, hanno la luce riflessa delle madri, mogli, figlie e nipoti che vivono nella vita dell’autore. È un cassetto aperto dicevo, non è nulla che dovrebbe stupire, eppure nella società, e in particolar modo nel modo equestre ancora dal carattere così maschile, non può che essere valore aggiunto.
Il nostro Alvise nulla potrebbe senza le femmine che complicano la sua vita e che poi si adoperano per risolvere i suoi guai.