Addestramento del cavallo, un cambio di paradigma
Nella prima parte dell’articolo, pubblicato tempo fa abbiamo visto delle importanti differenze tra addestramento, educazione e formazione.
In questa parte cercheremo di capire meglio cosa si intende con degli esempi.
Esempio di addestramento.
Supponiamo di voler far girare un cavallo in tondino alla longia.
La procedura comportamentista utilizzata in questo caso è fondata sulla triade stimolo-risposta-rinforzo.
Quindi una corretta esecuzione potrebbe essere: alzo la frusta (o stick, o coda della lunghina): questo è lo stimolo - che in questo caso corrisponde a una pressione psicologica; se il cavallo non avanza agito lo strumento (aumento della pressione); se non avanza ancora lo tocco (pressione fisica). Quando il cavallo esegue (risposta), tolgo la pressione (rinforzo negativo). Qualsiasi altro movimento faccia il cavallo che non sia quello richiesto, ad esempio venire verso di me, cambiare direzione, andare più piano o più veloce, ritirarsi, andarsene via - viene corretto, perché il risultato cercato è che il cavallo avanzi nei modi e nei tempi previsti alla vista del minimo movimento possibile della frusta. Questa procedura e le varie correzioni possono essere svolte in un’unica sessione o molto diluite nel tempo, con minore o maggiore professionalità, tempismo e conoscenza di ciò che avviene, ma la finalità è unica: richiedere un’azione precisa a un preciso comando.
Dal punto di vista dell’umano:
- tutto ciò che si utilizza per ottenere l’azione richiesta, come la pressione-rilascio dell’esempio (rinforzo negativo), premio in cibo (rinforzo positivo), rispetto dei tempi, pause, shaping, ecc. è di matrice comportamentista. Attenzione: anche un “bravo”, in questo contesto (ricordiamoci il significato di “contesto”), ha una valenza di rinforzo; così come non è assolutamente vero che attendere del tempo dopo lo stimolo principale, prima di fare dell’altro, sia “permettere al cavallo di pensare” e quindi per questo applicare un approccio cognitivo (principale errore di molti sedicenti “esperti” del settore).
Dal punto di vista del cavallo:
- il cavallo non capisce perché deve girare in tondo per più volte: di sicuro non possiamo spiegarglielo, e non fa parte del suo naturale comportamento eseguire questo o altri movimenti in modo regolare e ripetitivo. Non è possibile quindi coinvolgerlo a livello cognitivo, relazionale o empatico, per cui il suo unico obiettivo rimane l’evitamento della pressione o il raggiungimento di una sensazione positiva data dal “bravo” o dalla carotina: esattamente ciò che le teorie comportamentiste richiedono.
Una nota sulla frusta: se il cavallo non conoscesse la frusta e i suoi effetti, nel momento in cui venisse mossa potrebbe girarsi a guardarla, andare ad annusarla, o magari assaggiarla per scoprire di cosa si tratta; oppure se sapesse già cos’è ma non la temesse, potrebbe essere disinteressato e continuare tranquillamente a mangiare l’erba, come se avessimo in mano una penna. Quando invece la frusta è efficace, è perché il cavallo la conosce bene e sa cosa può comportare. Al termine dell’addestramento possiamo valutarne l’azione in una semplice maniera: più il movimento della frusta che occorre per far eseguire al cavallo una determinata azione è minimo, maggiore è il condizionamento che ha subìto, e quindi maggiore è la validità dell’addestramento.
L’utilizzo di questo approccio fa sì che il cavallo impari a eseguire esattamente ciò che gli viene richiesto, quando gli viene richiesto, indipendentemente da chi glielo richiede. Ecco perché è fondamentale utilizzarlo se si pratica sport, se si effettuano gare, o se si ha un maneggio dove si affittano i cavalli per le passeggiate o per i corsi a terzi, ossia in tutti gli ambiti dove è richiesta una prestazione e dove la relazione univoca non è fondamentale ma anzi deleteria, perché il cavallo deve essere dato in mano a più persone.
Un cavallo condizionato lo si riconosce (tra le tante altre cose) proprio per la sua innaturale obbedienza.
Esempio di educazione uomo-cavallo.
Ricordiamo che la finalità dell’educazione, in questo caso, è ottenere un cavallo ubbidiente, che non abbia opposizioni o rifiuti. Ricordiamo anche che non è possibile spiegare a un cavallo il perché di certe nostre richieste (cosa necessaria per un’educazione corretta) e che fa parte di questo contesto il fatto di “ottenere qualcosa” dal cavallo, fosse anche solo il fatto di portarci a fare una passeggiata, o di non avere paura di qualcosa.
Per tutti questi motivi, già meglio specificati, l’unica educazione possibile tra specie diverse è un’educazione autoritaria. L’esempio più classico si ha con la teoria del leader, tipica della Natural Horsemanship.
Supponiamo di avere un cavallo che invade il nostro spazio. La teoria della N.H. prevede che il cavallo venga allontanato, di solito utilizzando uno stick o il cosiddetto “gioco dello Yo-Yo”, ossia con rinforzi negativi. Il cavallo recepisce semplicemente che non lo vogliamo vicino, non riesce a capire che lo allontaniamo perché lo riteniamo pericoloso per noi. Non può capirlo perché è abituato con i propri simili, dove la vicinanza di certo non è ritenuta pericolosa, ma fa parte di una dinamica comunicativa; e anche perché noi non gli abbiamo mai spiegato che siamo fisicamente più deboli, anzi lo abbiamo tenuto sempre ben nascosto.
Se fosse possibile un dialogo, sarebbe questo:
Uomo: - Allontanati.
Cavallo: - Perché?
Uomo: - Perché lo dico io.
Tutto è quindi rivolto all’azione, non alla comprensione. Per cui di matrice altamente comportamentista.
Esempio di educazione in natura.
Supponiamo che un cavallo voglia che un altro elemento del branco si sposti. Potrebbe dapprima minacciare schiacciando le orecchie, proseguire girandosi di posteriore e concludere tirando un calcio. Quale dev’essere la risposta dell’altro cavallo? Non è prefissata. L’altro cavallo può agire con una tecnica di evitamento, può rispondere ai calci, può scappare via. L’educazione quindi inizia con una comunicazione dove si apre un ventaglio di risposte tutte valide, che a loro volta producono altri effetti a cascata. Il cavallo infatti capisce cosa è gradito e cosa non lo è ai suoi compagni, e in base al tipo di relazione che ha con loro decide se assecondarli, ristabilire un grado di parità o minacciarli a sua volta. Tutto questo dipende anche da molti altri fattori, tra cui per esempio i ruoli che i cavalli hanno nel branco (non si fa riferimento alla teoria del leader o capobranco, ampiamente dimostrata come inattendibile). In ogni caso il risultato comporta una serie di conseguenze sulla relazione e sulle dinamiche di branco, che rientrano nel concetto di educazione. Quindi la relazione permette l’educazione, che a sua volta modula la relazione, e di conseguenza vengono stimolate le capacità socio-cognitive del cavallo.
In questi casi non si può parlare di semplici stimoli-pressioni-rinforzi, in quanto la comunicazione è molto più complessa e stratificata: non ha intenti addestrativi, non è relativa all’insegnamento di una risposta unica a un determinato stimolo, bensì comprende l’aspetto relazionale tra singoli individui e le dinamiche sociali di individui appartenenti alla stessa specie.
Ecco perché non è possibile affermare che le pressioni che si usano nell’equitazione cosiddetta “naturale” sono come quelle utilizzate in natura. La differenza è sostanziale, in quanto in equitazione è addestramento, in natura è educazione, con tutte le derivazioni che ne conseguono.
Come si attua una formazione socio-cognitiva uomo-cavallo?
(riferimento paradigma: HorseManKind di Sergio Albertin).
Come abbiamo visto le premesse principali sono: creare il contesto adeguato e stabilire una comunicazione
comunicazione interspecie a doppio senso.
Per creare il contesto adeguato è necessario un percorso semplificato dalla seguente mappa:
https://www.horsemankind.it/mappa-paradigma-horsemankind/
Tutto questo, per essere correttamente costruito, può necessitare anche di un paio d’anni. Ogni parola utilizzata (relazione, naturalità, neutralità, empatia interspecie, comunicazione volontaria interspecie, libera collaborazione, ecc.) non è un semplice vocabolo. Ogni parola esprime un concetto profondo, che richiede di essere studiato e compreso, per poi essere sviluppato con il cavallo.
Da ciò si evince che le competenze necessarie per poter svolgere una formazione socio-cognitiva efficace nei confronti di un’altra specie sono molteplici, e nascono da una visione globale che tiene conto della filosofia di fondo e delle relative teorie.
Esempi di formazione socio-cognitiva uomo-cavallo (riferimento paradigma: HorseManKind di Sergio Albertin).
Un esempio di formazione socio-cognitiva è molto complesso da esporre in un semplice articolo, perché non esistono regole perfettamente definite e quindi facilmente descrivibili.
Premesse fondamentali sono l’aver costruito il contesto come precedentemente accennato, e l’aver creato la possibilità di una comunicazione interspecie a doppio senso; è anche importante aver sviluppato la relazione e svolto le attività insieme nel rispetto più totale della libertà del cavallo, ossia tramite la libera collaborazione, resa possibile soprattutto dai principi di reciprocità e condivisione. Tutto ciò rende il contesto ancora più efficace, in quanto il cavallo si è costruito nel tempo un’immagine di noi ben precisa, specificatamente ricercata e voluta dal paradigma HMK.
Vediamo un semplice esempio:
- un puledro vivace
Diversamente dalla libera collaborazione, nell’aspetto più propriamente formativo al cavallo possono essere poste delle richieste esprimendo una maggiore autorevolezza. Ciò è reso possibile solo grazie a una relazione molto intensa e a un profondo rispetto dell’etica equina. Una richiesta così fatta deve avere una motivazione corretta e giustificata, quindi per poterla porre dobbiamo conoscere come si esprime il senso di giustizia negli animali – umani e non umani – altrimenti non verrà accolta con la medesima predisposizione. “La capacità di valutare gli individui in base alle loro interazioni sociali è universale e innata, e la capacità di valutare le situazioni di natura sociale è un adattamento biologico” (Kiley Hamlin) – “Un modo per sapere che gli animali hanno aspettative sociali è rendersi conto della loro sorpresa quando le cose non vanno secondo giustizia (…) La giustizia è strettamente collegata alla cooperazione, alla reciprocità e all’empatia” (Marc Bekoff).
Supponiamo che sia un puledro vivace, che abbia voglia di giocare e pretenda di farlo con noi così come fa con i suoi simili, magari rampando, calciando o mordendo, senza tenere conto della nostra fisicità. Esattamente come accade nelle dinamiche di branco, noi facciamo capire al puledro che questa cosa non ci è gradita, andandocene (è una semplificazione di un processo molto più complesso di messaggi, dove l’andarsene via rappresenta la parte finale; consigliamo di non provare perché, se non fatto con i criteri corretti, potrebbe sortire effetti contrari alle aspettative). Più la relazione è forte, più il cavallo desidera mantenerla, e quindi più forte sarà il suo desiderio di capire cosa sta succedendo per mantenere l’unione con noi.
Il nostro allontanamento corrisponde a un messaggio emozionale (paradigma HorseManKind) a cui è liberissimo di scegliere come rispondere.
Il cavallo, con questo tipo di approccio, rimane sempre libero mentalmente e soprattutto ha la possibilità di scegliere come far evolvere la relazione con il suo amico umano. Le situazioni che affronta lo portano a vivere momenti che lo rendono sempre più cosciente di se stesso e sempre più cognitivo, rendendolo parte attiva della relazione e stimolandolo a formulare ipotesi sociali per comprendere le dinamiche che gli proponiamo.
Questo approccio è ovviamente possibile solo con cavalli con cui si sia iniziato da tempo un processo di formazione socio-cognitiva. Se un cavallo è sempre stato immerso in un ambiente comportamentista (addestramento, natural horsemanship, ecc.), non ha avuto una rinaturalizzazione adeguata e soprattutto non è stato approcciato nel contesto e nel modo corretto, percepirà ogni messaggio in modo distorto con risultati totalmente negativi.
Ad esempio: un cavallo tenta di mordermi e io me ne vado (ripeto che “andarsene” è una semplificazione).
All’interno di un contesto comportamentista il cavallo apprende che ha trovato il modo di allontanarci e diventerà sempre più incline a mordere, specie se la relazione non è corretta.
All’interno di un contesto creato per ottenere una formazione socio-cognitiva, il cavallo recepisce il messaggio emozionale, comprende di aver fatto qualcosa che non ci è gradito e rimodula la relazione di conseguenza. Se la relazione è forte, attuerà tutta una serie di strategie per “riconquistare” il suo amico umano.
Un totale cambio di paradigma.