A cavallo nei pressi di Tokyo
Agli inizi di questo agosto arroventato si sono chiusi i giochi di Tokyo, dove l’Italia ha infiammato i nostri cuori con quaranta medaglie e lo spettacolo di una bella gioventù capace di sentirti italiana al di là dell'eventuale colore della pelle. Restiamo ora in attesa delle paraolimpiadi e fin da ora facciamo tutti i nostri voti per l'amazzone Sara Morganti, nostra impareggiabile campionessa. Il dispiacere è che nello scenario di Tokyo 2020 la nostra equitazione non abbia dato gran prova di sé: meglio dimenticare il Salto Ostacoli, anche se occorre sottolineare che le tre amazzoni del Completo hanno fornito una dimostrazione di coraggio, guadagnando molte posizioni con il cross, dopo una deludente prova in dressage. Certo, nel ‘64 gli italiani hanno portato a casa la medaglia d’oro a squadre e individuale (nella persona di Mauro Checcoli).
Si dirà che il futuro non si costruisce rimpiangendo i passati allori. Vale per lo sport, e forse vale anche per il cinema, che in questo nuovo millennio stenta a trovare sé stesso. Il vecchio “cinema di papà” sapeva offrire storie indimenticabili, che negli anni Duemila sono ormai sempre più rare. Basti pensare, per restare in tema di cavalli e di Giappone, ai film che ci ha offerto il regista nipponico Akira Kurosawa, autore delle più belle e cruente battaglie di cavalleria della storia del cinema. Chi vuole sentirsi nel mezzo di una battaglia, vada a vedersi su YouTube cosa è stato capace di offrirci questo straordinario regista con il suo film “Ran”. Troverà soltanto degli spezzoni, ma saranno sufficienti a comprendere la forza epica della sua regia. Kurosawa traspone nel Giappone del Seicento la vicenda shakespeariana di Re Lear, raccontando di un monarca detronizzato dai suoi tre figli che si combattono senza quartiere per assicurarsi il suo regno. Scrive Mereghetti nel suo dizionario di cinema: “‘Ran’ è un film dal fascino inebriante, smisurato[…] grandi quadri in perenne movimento, colori sgargianti, scene di battaglia fra le più belle mai realizzate sullo schermo. È il primo film per il quale Kurosawa ha potuto disporre di tutto il tempo e il denaro necessari”. Bene, possiamo dire che quei capitali si vedono tutti quanti, nella ricchezza di costumi, nella mobilità delle inquadrature, nella potenza registica. Sappiamo che la tradizione della cavalleria nipponica è profonda e ben radicata nella storia di quel Paese. E Kurosawa la usa da par suo, con un’epica che era già intuibile in un suo film precedente, intitolato “Il trono di sangue”, anch’esso ispirato a Shakespeare, per la precisione a Macbeth. La storia del nobile che uccide il suo re, spinto dalla moglie lady Macbeth, che - preda della propria colpa - non riesce a nettarsi le mani dal sangue del delitto di cui si è macchiata assieme al marito, è girata con stampo teatrale, ma ha dei veri e propri squarci dì irruente vitalità quando racconta l’arrivo dei cavalieri all'accampamento, dove sventolano le bandiere del sol levante.
Per Kurosawa il cavallo è sempre e soltanto movimento, è forza cinetica inarrestabile. Nessun regista come lui ha firmato tanti capolavori, fra i quali va ricordato il celebre “I sette samurai” (cui è chiaramente ispirato il cult western “I magnifici sette”, che di fatto ne è un riuscito remake). Attore-simbolo di Kurosawa è il grande Toshiro Mifune, che ha conquistato una notorietà mondiale, e che ha lavorato anche in un western hollywoodiano, diretto da un regista di mestiere come Terence Young, in cui si narra di due fuorilegge che assaltano un treno, rubando una preziosa spada all’ambasciatore del Giappone. Un western picaresco e scanzonato in cui Mifune, accigliato guerriero nipponico, e il bandito americano Charles Bronson, diventato celebre interpretando proprio uno dei “Magnifici sette”, se ne dicono di tutti i colori. È il cinema, bellezza.