L'archetipo del cavallo, una presenza costante nella storia
Un cavaliere, in groppa ad un destriero, apre le braccia al destino, al mondo, alla propria condizione umana. Forse annichilito di fronte all'immenso, forse capace di fronteggiarlo coraggiosamente. Una cifra artistica riconoscibilissima e indimenticabile: quella di Marino Marini. Ebbene, sono numerosissimi i suoi cavalieri presenti nella mostra a lui dedicata appena aperta a Pistoia con il titolo "Marino Marini passioni visive" che resterà aperta fino al 7 gennaio dell'anno prossimo. E che vale la pena di non perdere.
Sulla grandezza di Marini non è il caso di tornare: se ne accorsero precocemente i critici, il mercato e i collezionisti: Peggy Guggenheim volle un suo cavaliere nel giardino della sua casa-museo affacciata sul Canal Grande. Più utile ricordare il motivo - del tutto casuale - che avvicinò questo artista ai cavalli: all'inizio della sua carriera Marini aveva affittato uno studio che apparteneva ai gestori di un maneggio; nasceva in questo modo la possibilità di frequentarli da vicino, di disegnarli e modellarli. Scoprendone così la bellezza e la valenza simbolica. In breve i cavalli divennero per lui, affascinato dalle forme della scultura etrusca, modelli privilegiati nella sua intera vicenda creativa.
Sul cavaliere acquistato da Peggy Guggenheim circolano anche alcuni divertiti aneddoti: pare che le maestre elementari che portavano le scolaresche in visita al museo, temessero di turbare i loro piccoli alunni perché il cavaliere aveva il fallo in evidenza. Marini non si arroccò sul problema, ma lo superò, rendendo il fallo svitabile. Quando arrivavano i ragazzini ( o la processione con Patriarca della città passava in gondola) il sesso veniva tolto. Per poi tornare al suo posto poco dopo.
Ma un altro cavallo galoppa nell'arte contemporanea, non lontano da quello del museo di Peggy Guggenheim: nell'edizione della Biennale Arte di Venezia che si è inaugurata nel maggio scorso, l'installazione che ha riscosso la maggior attenzione del pubblico si intitola El problema del caballo e rappresenta una bambina a grandezza naturale che carezza la testa di un enorme, galoppante destriero. Un essere sovrannaturale per dimensioni, bellezza, innocenza, irruenza e forza. Ne è autrice l'artista argentina Claudia Fontes, che dichiara di aver voluto esplorare il tema della libertà e della dominazione: "il cavallo si ribella agli standard e ai preconcetti dello stile di vita capitalistico imposto all'Argentina dal dominio coloniale. E finisce per sollevare il problema di una nuova e diversa relazione fra uomini e animali".
Ecco dunque la questione: sappiamo tutti che il cavallo ha accompagnato per millenni l'uomo nell' agricoltura, nei viaggi, nella caccia e nella guerra. Facile comprendere come la sua immagine fosse uno dei cardini dell'iconografia di tutti i tempi (dalle pitture rupestri delle grotte di Lascaux ai cavalli naponeonici di David, fino a De Chirico). Ma ormai è soltanto un amico del tempo libero e dello sport. E allora come si spiega la sua forte e radicata permanenza nell'espressione artistica? Caterina Lelj - una studiosa che negli anni Cinquanta del secolo scorso diede alle stampe un ricco volume intitolato Cavalli e cavalieri nella pittura italiana - pronosticò una sorta di "esplulsione" dell'immagine equestre: " il tema del cavallo e del cavaliere porta l'artista a un argomento superato dai tempi meccanici".
Questa sua previsione si è rivelata errata: i cavalli (a partire da quelli in carne ed ossa che Jannis Kounellis espose in una galleria romana, portando a conseguenze estreme l'idea della verità, tanto da sostituire l'immagine e la forma della scultura con l'immagine e la forma della vita stessa) continuano a galoppare nell'immaginario dell'arte, anche della più recente. Restando irruente creature mitologiche, e potentissimi esseri simbolici.
Una delle possibili e plausibili ragioni sta nel fatto che - come ha scritto il grande filosofo della scienza e della poesia Gaston Bachelar - "il simbolo apre il suo spazio all'esistenza quando cessiamo di considerare le realtà esterne o interne come oggetti e cominciamo a viverle come immagini. Una disposizione della coscienza e dello spirito che dona apertura e duttilità, dinamismo e libertà". Ogni essere umano, anche a sua insaputa, porta dentro di sè una sorta di matrice, di cicatrice, di contrassegno simbolico riguardante il cavallo, che aspetta solo di riaffiorare. Non soltanto attraverso la scultura e la pittura ma anche nella letteratura e nel cinema. All'ultimo festival cinematografico di Venezia (ancora Venezia!) è stato assai applaudito un film che ha come protagonista il rapporto fra un ragazzo sbatacchiato dall'esistenza e un anziano cavallo. Tratto dal romanzo di Willy Vlautin, e già premiato al festival, il film uscirà presto in Italia con il titolo Charles Thompson. Come a dire che El problema del caballo continua a riguardare noi tutti. Ora e sempre.