Il cavallo che cade e l’eroe che si rialza.
“Ma quel cavallo gigantesco stava accasciandosi ferito a morte o, al contrario, stava rialzandosi per riprendere a correre orgogliosamente?”
È questo che chiese lo scrittore Vittorio Emiliani osservando il cavallo di Francesco Messina, quello simbolo della Rai del 1965, all’esterno della sede di Roma e che tutti abbiamo visto almeno una volta in qualche servizio in tv. Gli fu detto che l’interpretazione seguiva le sorti dell’emittente televisiva: se le cose si mettevano male allora era morente e viceversa, ma ognuno di noi probabilmente quando guarda questa figura, l’immagine del cavallo caduto, si domanda senza mezzi termini: “Ma muore o si rialza?” adeguando questa idea alla sola figura del cavallo o a ciò che per ognuno di noi rappresenta questo animale nella sua posizione.
Pensare al cavallo di Messina è quasi spontaneo quando si pensa alla Rai ed è dalla tv che il grande pubblico si è sintonizzato con Tokyo anche se con il solito scarto quantitativo tra Olimpiadi e Paraolimpiadi. La televisione è stata il mezzo principale per farci un’idea delle competizioni olimpiche e gli sport equestri sono diventati virali spesso in un’ottica di competizione esasperata.
Ma se quel cavallo rappresentasse l’immagine che ci rimane a giochi conclusi delle competizioni di Tokyo, che idea ne avremmo?
La tedesca Annika Schleu porta avanti la sua gara di Pentathlon in lacrime, mentre la sua allenatrice prende a pugni Saint Boy; il cavallo del concorrente svizzero Robin Godel viene soppresso dopo un brutto incidente nella gara di Cross-country e che pensare di Shane Sweetnam con i colori dell’Irlanda, che spinge Alejandro oltre le sue possibilità, fino a cadere entrambi?
Allora sì, l’immagine che la televisione ci restituisce è negativa e se pensiamo a Messina, alla sua opera, allora quel cavallo caduto, inevitabilmente muore e quello è il suo grido ultimo.
Non è questa l’idea che i giochi olimpici avrebbero dovuto lasciare al grande pubblico, con un cavallo considerato a tutti gli effetti un atleta che viene soppresso e la Peta che chiede a gran voce: “Basta sport equestri alle Olimpiadi!”
In realtà Francesco Messina non ha mai avuto l’intento di rappresentare un cavallo “morente” ma, interrogato, disse: “Ho intenzione di fare un cavallo ferito, come dopo un combattimento” e questo non è abbastanza per farci capire la volontà dell’artista. Inizialmente furono le pessime condizioni in cui versava la statua a fargli attribuire questa definizione, ma Nicola Loi, direttore artistico della Fondazione Messina, ha ribaltato questa interpretazione: “Quel cavallo non muore, lotta!” e anch’ io credo che quel cavallo stia assolutamente cercando di rialzarsi dopo una battaglia, come quelle che ti fanno cadere, quelle che impongono alla vita di fermarsi ma poi di riprendere a combattere ed è quello che ha fatto la grandissima Sara Morganti assieme a Royal Delight che con la sua danza nel para dressage conquista il bronzo.
In questo binomio perfetto, la competitività si piega alla passione, il dolore è del cavaliere ed è una condizione costante, una battaglia che fiacca l’atleta e che lui stesso ogni giorno vince per risalire in sella. La medaglia è solo l’ultimo riconoscimento di una vita di coraggio e l’animale partecipa a questa lotta senza esserne vittima, solo alleato.
Il cavallo rampa allora, si rialza, assieme al cavaliere. Con la forza del cavaliere.
Anche l’arte, di fronte alla vita e all’impresa di Sara Morganti si adegua alla sua forza, assume significato positivo e ci fa capire che è da qui che si ricomincia, che ci si rialza, con l’esempio degli eroi.
“C’è una cosa che mi distingue dagli altri: questo amore alla vita e questo amore alla vita mi dà ancora la forza di pensare alla scultura nella sua essenza, nella sua meravigliosa condizione di gioia e di bellezza.”
Francesco Messina.
Ringrazio Lo Studio Museo Francesco Messina del Comune di Milano per la fotografia de Cavallo, bronzo, 1958, Francesco Messina.