Il benessere dei cavalli? Dipende solo dagli umani
DA QUALCHE TEMPO sempre più frequentemente le tematiche inerenti il benessere del cavallo stanno determinando un ampio dibattito tra gli appassionati. E questa è di certo un’ottima cosa, che si pone come contesto nel quale muovere i primi passi per passare dal quadro generale alla disamina del particolare. Vale a dire, cioè, cosa si debba veramente fare nella pratica quotidiana per rendere la vita dei nostri amici quadrupedi coerente e armonica con i loro bisogni sia fisici che mentali. Escludendo per un momento le forme di maltrattamento più gravi, il primo aspetto da affrontare è una sorta di zona grigia che in qualche modo coinvolge personalmente tutti noi cavalieri: quella legata ad alcune modalità di scuderizzazione e di utilizzo del cavallo che, pur non contenendo al proprio interno nessuna forma eclatante di violenza o di prevaricazione, pur tuttavia non consentono all’animale di soddisfare una serie di sue necessità comportamentali.
Di qui l’urgenza di aprire una riflessione seria e approfondita sulla qualità della vita che noi imponiamo ai nostri cavalli. Per farlo occorre indagare sempre meglio su come funzioni la mente dei cavalli, cominciando a liberare la nostra (di mente) dai tanti pregiudizi che la affollano. Perché, è inutile nasconderlo, tutti noi prima o dopo siamo stati influenzati, nel nostro modo di percepire e di interpretare i comportamenti dei cavalli, da una serie di credenze che, seppure inconsapevolmente, determinano la nostra condotta. Una tra queste, forse la principale, è la bizzarra idea che dal punto di vista dei bisogni (fisici e mentali) i cavalli siano tutti uguali e che, quindi, nei loro confronti sia possibile applicare una modalità standardizzata di scuderizzazione e di addestramento. Se teniamo però conto di quanto ci insegnano le moderne scoperte dell’etologia ( cioè della scienza che studia il comportamento degli animali) scopriamo di essere di fronte ad una specie, quella equina appunto, dotata di una struttura celebrale molto complessa e per alcuni aspetti non dissimile dalla nostra. Ovvio quindi che ciascun cavallo sia dotato di una personalità propria, espressione della sintesi tra i comportamenti geneticamente ereditati e le successive esperienze acquisite, una personalità che determina il suo modo tutto personale di reagire alle situazioni gratificanti o stressanti che gli accade di dover fronteggiare. Insomma, per formulare il concetto in modo un tantino antropomorfo, anche i nostri amici equini hanno una loro “visione delle cose della vita” spesso, sulla base delle passate esperienze, non priva di qualche…pregiudizio!%%newpage%%
Ma allora come fare per imparare a comprenderci meglio con il nostro cavallo e soprattutto a capire se è felice, o quanto meno sereno? Con un pizzico di ironia, che non guasta mai, verrebbe da rispondere così: attivando i nostri ‘neuroni specchio’, quei neuroni, cioè, che la neurobiologia colloca in quel sub strato del nostro cervello attraverso il quale possono essere attivati i meccanismi di identificazione. Complicato? Beh, allora torniamo ad impossessarci del sano pragmatismo dei nostri vecchi maestri di equitazione, i quali, non avendo alcuna inclinazione verso la spesso inutile fatica dei contorcimenti para intellettuali, avevano scoperto la formula magica: avere la capacità di mettersi “nei panni del cavallo”.
Perché una cosa è certa: se lo osserviamo con attenzione, lui è perfettamente in grado di inviarci segnali precisi di quale sia il suo “stato d’animo” rispetto allo stile di vita e di lavoro che gli proponiamo. Come noi umani, anche i cavalli possono essere vittime di depressione, nervosismo e stress, possono soffrire per la separazione da un individuo o da un ambiente che è loro familiare, possono avere reazioni abnormi se costretti a vivere in un ambiente monotono o, al contrario, eccessivamente carico di stimoli confusi e contraddittori. Occorre sapere, per esempio, che l’ambiente iper-protetto, e tutto sommato fortemente innaturale, nel quale si trova attualmente inserito questo animale, non gli consente che limitate occasioni per porre in atto tutta la molteplicità dei meccanismi innati dei quali dispone. E’ ovvio come ciò comporti uno sforzo di adattamento ed una tensione costante che, troppo spesso, rasentano il limite dello stress. Ma un essere vivente sottoposto ad una costante frustrazione e limitazione dei processi comportamentali e mentali per i quali è stato filogeneticamente programmato, non può essere certo un compagno piacevole, né un valido alleato sportivo. Il cavallo, quando non mette in atto comportamenti stereotipati ( i così detti “vizzi di scuderia”), tende a trasformarsi in un automa, privo di iniziative e di partecipazione a ciò che gli viene richiesto, il suo sguardo diventa “opaco”, la sua capacità di interagire con l’ambiente quasi nulla. Si trasforma in un robot, in una sorta di attrezzo ginnico animato. Un cavaliere attento e consapevole dovrebbe, di fronte anche ad un solo piccolissimo segnale di questo tipo, essere in grado di intervenire nell’interesse proprio oltre che del suo partner a quattro gambe. Anche se si volesse ( a livello del tutto teorico) prescindere da quelle responsabilità etiche che pure coinvolgono chiunque scelga di chiamare un animale a far parte della propria vita, siamo sicuri che sia così costruttivo e gratificante nello sport, come nel tempo libero, ritrovarsi come partner un cavallo nevrotizzato che nel migliore dei casi funzionerà a scartamento ridotto? Quale relazione equestre potrà mai essere quella che, negando l’individualità del cavallo, mortifica, e pesantemente, anche quella dell’uomo? E’ dalla qualità del rapporto che sappiamo mettere in essere con l’altro (animale o uomo che sia) che si evince quella che abbiamo saputo realizzare con noi stessi.
Non sarebbe meglio per l’equilibrio psicofisico di entrambi i membri del binomio equestre cercare di far vivere i nostri amici quadrupedi in un ambiente etologicamente sano, non fosse altro perché, come si sa, la nevrosi è uno stato d’animo molto facilmente… trasmissibile?