Cavalli in pensione, utopia praticabile?
Il dibattito esploso nelle ultime settimane circa l’iscrizione o meno dei cavalli dpa ( cioè destinati all’alimentazione umana) nei ruoli federali, ha messo in evidenza un problema, che fa da sfondo all’attività equestre ma che raramente viene affrontato a viso aperto: quello della destinazione dei cavalli a fine carriera.
L’individuazione dell’esattezza dei termini correla necessariamente una premessa che, al tempo stesso, costituisce il punto di vista generale di chi scrive. Ovvero: qualsiasi cavallo di qualsiasi razza, natura ed età, dovrebbe essere preservato da una fine orribile quale quella di morire dentro un mattatoio circondato dalla cognizione dell’angoscia. Esplicitata dunque doverosamente l’ottica dalla quale accostarsi alla problematica, non resta che fare i conti con l’impressione di assistere ad un dibattito spesso sospeso tra cinismo e ipocrisia.
Sarebbe interessante sapere quanti cavalli non dpa sono “spariti nel nulla” per infortuni, per scarsa attitudine all’agonismo, per cessata attività. Se qualcuno ha a disposizione questi numeri saremmo lieti di riceverli e pubblicarli.
Perché il nodo del problema è questo, se mancano luoghi e strutture dove sia possibile ricoverare i cavalli per qualsiasi motivo, inabili al lavoro, parlare di dpa o non dpa è un problema che può avere a che fare ( e molto) con la salute umana, ma pochissimo con il benessere dei cavalli e con un “fine vita “ dignitoso. Le tante associazioni che si occupano di ricoverare o dare in affidamento soggetti anziani od infortunati, fanno quello che possono; un lavoro encomiabile ma ovviamente insufficiente. Dunque che fare? Di soluzioni pret- a- porter siamo al momento sprovvisti. Tanto vale allora di prendersi la libertà di immaginare anche l’inimmaginabile.
Che effetto farebbe, per esempio, leggere una mattina appena svegli un lancio di agenzia con cui si divulga urbi et orbi che la Fise si fa carico del problema dei cavalli a fine carriera? Uno strano effetto: mai leggere qualcosa di importante appena aperti gli occhi e senza aver preso prima il caffè. Il rischio allucinazioni è in agguato.
Ma se anche dopo il secondo caffè buttato giù di seguito, si legge di nuovo che la Fise affronta la grande e non più rinviabile questione etica ( proprio così dice l’Agenzia “ la grande e non più rinviabile questione etica”) del fine carriera dei cavalli e che il percorso viene subito avviato, assieme a tutti gli enti di promozione sportiva, con l’istituzione di un Fondo Pensione finanziato con una parte delle somme vinte in gara o guadagnate attraverso il lavoro dei cavalli stessi… ecco che effetto farebbe leggere una notizia del genere?
Non solo, ma che effetto farebbe ( e quale incredibile ritorno di immagine sarebbe per tutto il comparto) leggere nello stesso comunicato “ per una vecchiaia dignitosa perché, al pari di tutti i lavoratori dello sport, anche i cavalli hanno diritto al versamento dei contributi previdenziali ancor più dovuti in quanto sottoposti spesso a….lavoro usurante”
Inimmaginabile? Forse, ma non del tutto. I tanti cavalieri ed operatori del settore che si sono ( e ne siamo lietissimi) dichiarati favorevoli al non dpa potrebbero farsi promotori di questa iniziativa ( magari anche attraverso un piccolo contributo) che andrebbe a sostegno soprattutto dei cavalli di scuola, quelli che forse hanno il futuro più problematico.
Un passo ulteriore, di natura forse più simbolica, ma con ricadute culturali non trascurabili, sarebbe che tutto l’universo equestre si unisse per chiedere una legge (dello Stato) che riconosca il cavallo come animale da affezione. Dopo più di 5000 anni di collaborazione con l’uomo sarebbe ora che la nostra specie compisse un atto di riconoscenza verso chi ci ha consentito, a costo troppo spesso di sudore e sangue, di costruire quella che definiamo “ civiltà”.
I tempi sono maturi anche per la mutata sensibilità nei confronti di tutti gli animali che tra l’altro indica il cavallo come uno degli animali particolarmente amati e favoriti da “quelli del mondo di fuori” .
Un’atmosfera che, come è ovvio che sia, ha contagiato in parte anche il nostro ambiente e si sta manifestando attraverso una sempre maggiore attenzione per i bisogni mentali dei nostri compagni a quatto gambe e per un crescente interesse per le tecniche di doma e addestramento non aggressive. Sarebbe opportuno per tutti che la federazione investisse sempre di più su questi aspetti promuovendo cultura e conoscenza perché, parafrasando Gandi “ la civiltà di una federazione equestre si misura sul modo in cui tratta i suoi atleti a quattro gambe!”